Figura straordinaria e contraddittoria, Simone Weil attraversa come una rapida meteora il firmamento culturale della prima metà del ‘900.
Irrequieta e indipendente, rifiuta schemi ed etichette confezionati da altri e fa della sua breve vita una ricerca tenace, affannosa, disperante ed impronta il suo stile di vita alla partecipazione, all’impegno, alla sperimentazione, alla testimonianza. La troviamo così nelle vesti di insegnante di filosofia, di operaia, in quella di combattente, sia pure per pochi giorni, nella guerra civile spagnola (“per non essere assente”), di animatrice di primo piano nel dibattito politico, spirituale e filosofico del tempo. Quantunque di famiglia ebrea, non si riconosce in quella religione e non accetta di soffrire, perché la ritiene una condizione non scelta da lei. Appartiene all’area politica della sinistra, ma non ne sposa completamente l’ideologia. Né con la Chiesa, né con Marx. Ci viene in mente la figura di Ignazio Silone, cristiano senza chiesa, socialista senza partito.
Simone appartiene orgogliosamente a se stessa, cerca in autonomia la sua strada, non disdegnando la contraddizione. Rifiutare l’ebraismo non significa perciò abbracciare automaticamente il cattolicesimo o il cristianesimo; essere di sinistra non vuol dire accettarne acriticamente i dogmi; non manca infatti qualche riflessione sulla richiesta di ordine che in qualche modo il regime nazista avrebbe soddisfatto, così come non mancano le critiche alla sinistra tedesca che si era rivelata incapace di contrastare la nascita del nazismo.
Ecco perché la vita di Simone è ricerca continua, ansiosa, instancabile, nella quale profonde ogni energia del suo fisico pur gracile, ogni risorsa del suo spirito combattivo, animata dal coraggio di scelte originali e di posizioni radicali, da una insoddisfazione intellettuale sempre latente, dalla vocazione caritativa, dal fuoco del sacrificio fino al martirio.
La sua fine prematura (24 agosto 1943) merita qualche riflessione, perché non sembra pienamente comprensibile e “giustificabile”. Il “Tuesday Express” è laconico nell’annuncio: “Professore di francese si lascia morire di fame”. Vero è che le cronache la descrivono asessuata, ma il giornale inglese avrebbe potuto ben più correttamente chiamarla professoressa; quel foglio locale, tuttavia, ha forse un qualche merito perché per primo usa l’espressione “lasciarsi morire”, che sarà ripresa da tutti coloro che successivamente parleranno di Simone e della sua fine.
Già, lasciarsi morire a 34 anni ! Ma perché ? E’ questo l’interrogativo che ci intriga e al quale potrebbe dare una risposta L’ombra e la grazia, raccolta di pensieri tratti dal diario tenuto tra il 1940 e il 1942 (Rusconi editore).
Natalino Sapegno, nel suo Disegno storico della letteratura italiana, inizia i capitoli intitolati ai singoli autori con un paragrafo relativo alla “Vita”. Per Leopardi fa un’eccezione e lo intitola “Storia di un’anima”, a testimonianza di una sua partecipazione più accorata a quell’esplorazione.
Anche L’ombra e la grazia si potrebbe sottotitolare “Storia di un’anima”. L’approccio a questo tipo di testo incute sempre una qualche titubanza, perché tratta
di perlustrare il profondo di una psiche, avventurarsi nei meandri di pensieri “intimi”. Con quale diritto ?
Riflessione analoga richiama “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese, diario dei suoi ultimi anni di vita. In questo caso l’emozione è più bruciante, perché dopo le ultime righe (“Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio. / Tutto questo fa schifo / Non parole. Un gesto. Non scriverò più”), ancor prima di chiudere il libro, il lettore sente detonare lo sparo suicida.
Nei confronti di questi testi occorrerebbe forse maggiore rispetto e discrezione, né può apparire sufficiente l’autorizzazione alla pubblicazione che viene regolarmente concessa dai familiari, che cedono alle lusinghe dell’editoria (business is business ), fingendo di agevolare i supremi interessi della cultura.
Tornando a L’ombra e la grazia, Fortini traduce con “ombra” l’espressione francese “pesantuer”. L’ombra potrebbe essere una macchia in un contesto di grazia, di luce. Nel testo, invece, la luce è alquanto carente, è più una tensione ideale verso l’alto che una presenza vera. I pensieri sono grevi e fanno aggio sull’anelito verso la grazia. Meglio forse La pesantezza e la grazia. Sembra inoltre piuttosto incongruo parlare di libro di aforismi, perché questi presuppongono la conquista di una verità piccola, ma definitiva. Il nostro testo propone invece temi di ricerca e meditazioni che lasciano il campo a successivi approfondimenti.
Il pensiero talora è oscuro, talaltra si segnala come intuizione folgorante, appena fissata sulla carta come per impedire all’idea di volatilizzarsi; più spesso si tratta di pensieri articolati, da rileggere per cogliere il senso compiuto e la profondità della meditazione.
Una cosa è certa: non è un libro da divorare tutto d’un fiato; l’aspetto esteriore inganna. Lettura breve, meditazione, decantazione nel profondo dell’anima. E’ il classico livre de chevette , da leggere, riporre appunto sul comodino e riprendere successivamente. Le idee sono un distillato di saggezza sofferta, maturata nei campi più disparati e segnata da una esperienza che ha inciso la sua traccia nel fisico e nella psiche di Simone. Il rispetto per le idee espresse è pertanto quantomeno doveroso. Onestà vuole, tuttavia, che si sottolinei qualche aspetto discutibile. C’è una sorta di compiacimento nell’autoflagellazione, nello sprofondare in un dolore ineludibile (stoicismo cristiano), una eccentricità talora ricercata, un “tenero fremito esaltato” (G. Hourdin – Introduzione -), una qualche indulgenza al gusto del paradosso per esprimere concetti solitamente controcorrente e provocatori.
Al bivio tra un’autostrada di pensiero e un sentiero erto e sinuoso, Simone sceglie inevitabilmente la strada difficile. Per aspera ad veritatem, ed eccola Simone, alpinista del pensiero, inerpicarsi su per la montagna, spellarsi le mani alla ricerca di faticosi appigli, annaspare, senza mai guardarsi indietro per verificare che qualcuno la segua. Guidata dalla sua rigorosa intransigenza morale, lei prosegue testarda la sua ricerca disperata della verità assoluta. Nulla concede ai suoi interlocutori, veri o potenziali che siano. La strada da seguire è una, senza tentennamenti, compromessi, infingimenti.
Il tono è spesso quello arrogante della giovane intellettuale, ma non c’è tempo per le leziosità; la morta gora del perbenismo conformista e rassegnato va smossa anche provocatoriamente dalle profondità, per ridiscutere certezze o pseudo tali, per ritrovare il gusto di pensare, lucidamente e coerentemente. L’uomo – ammoniva Pascal (Pensieri) – è manifestamente fatto per pensare; qui sta tutta la sua dignità; e tutto il suo merito e tutto il suo dovere sta nel pensare come si deve …
L’ombra e la grazia, dunque, ospita pensieri in campi disparati, ma la nostra chiave di lettura vuole essere piuttosto particolare, perché si prefigge di scandagliare tutti quegli spunti che in varia guisa possano guidarci nella ricerca delle motivazioni della sua scelta di morte prematura. Anche trascurando il dato meramente anagrafico, per dare risalto alla “qualità” e alla intensità della vita di Simone, troppo inconsueta, troppo acerba è la sua fine perché si possa accettarla senza provare a capirne il perché.
E’ un tentativo delicato, perché muovendosi sul crinale della vita e della morte, occorre estrapolare concetti non da un tessuto narrativo organico, ma da una raccolta di pensieri, già di per se frammentaria. Il rischio che si corre è quello di smarrire il senso del contesto.
Ci proviamo comunque, per cercare di capire le fasi attraverso le quali matura il disegno di autoannientamento.
Il meccanismo che, in una situazione troppo dura, produce l’avvilimento, è dovuto al fatto che l’energia fornita dai sentimenti elevati è – generalmente – limitata; se la situazione esige che si vada oltre quel limite, bisognerà ricorrere a sentimenti bassi (paure, desideri, gusto del primato, degli onori esteriori) più ricchi di energia.
Questa limitazione è la chiave di molti rivolgimenti.
Tragedia di coloro che, essendosi inoltrati per amor del bene in una via dove c’è da soffrire, giungono dopo un certo tempo ai propri confini; e si degradano. Pag. 21,4.
Avvilimento potrebbe essere una parola chiave; chi giunge al proprio confine, per poter proseguire dovrebbe degradarsi e Simone non è soggetto di quella risma.
Afferrare (in ogni cosa) che c’è un limite e che non sarà possibile oltrepassarlo senza aiuto sovrannaturale (o, altrimenti, di pochissimo) e pagandolo successivamente con un abbassamento terribile. Pag. 22,3.
Lezione di umiltà coraggiosa e sorprendente, se si considera il carattere orgoglioso di Simone.
In qualsiasi situazione, se si ferma l’immaginazione si forma un vuoto (i poveri in ispirito).
In qualsiasi situazione (ma, in talune, a prezzo di quali abbassamenti !) l’immaginazione può colmare il vuoto. Pag. 31.4.
Non si può dire che a Simone mancasse l’immaginazione per colmare il vuoto della crisi. Nel periodo topico aveva evidentemente esaurito ogni riserva !
L’avvenire che colma i vuoti. Talora anche il passato sostiene questa parte (Io ero, ho fatto…), In altri casi, l’infelicità rende intollerabile il pensiero della felicità; priva così l’infelice del suo passato. Pag. 32.3.
Il passato e l’avvenire. Ostacolano l’effetto salutare della sventura fornendo un campo illimitato ad immaginarie elevazioni. Per questo la rinuncia al passato e all’avvenire è la prima delle rinunce. Pag. 32.4.
Quando il dolore e lo sfinimento giungono al punto di far nascere nell’anima il senso della perpetuità, contemplando questa perpetuità con accettazione e amore si viene strappati via fino all’eternità. Pag. 33.3.
Quel vuoto si potrebbe anche superare col ricordo del passato e l’attesa dell’avvenire, ma Simone rinuncia al tempo, per lei c’è solo il presente col suo dolore e il suo sfinimento. che le danno il senso della perpetuità. (La frequentazione delle religioni orientali lascia qui il segno). Le condizioni sono mature e Simone si lascia strappare via fino all’eternità.
Nulla al mondo può toglierci il potere di dire Io. Nulla, eccetto l’estrema infelicità. Nulla è peggiore dell’estrema sventura che distrugge l’Io dal di fuori, perchè da quel momento non può più distruggersi da sè. Pag. 38.3.
Io dal di fuori. Evidentemente Simone si è sentita distrutta dal di dentro, perchè solo così ha potuto distruggersi da sola.
L’estrema sventura è quando tutti gli affetti sono sostituiti da quello di sopravvivenza. A Simone non interessa la semplice sopravvivenza, sicchè in questa situazione , accettare la morte, significa aver raggiunto il distacco totale. Pag. 40.1.
Se (l’Io) non è morto, l’amore può rianimarlo. Pag. 41.1.
Forse il suo Io non era morto, ma certamente non è arrivato l’amore puro a rianimarlo.
Si posseggono solo le cose cui si è rinunciato. Pag. 45.5.
Ritiene di possedere la vita rinunciandovi. Riecheggia alquanto D’Annunzio che, all’ingresso del Vittoriale a Gardone Riviera, scrive: “Ho quel che ho donato”, con la differenza che il dono può perpetuare la cosa, in qualche caso può anche fecondare e fruttificare; la rinuncia è sempre improduttiva, è la morte, l’annullamento.
Una volta capito che si è nulla, il fine di tutti gli sforzi è di diventar nulla. Tendendo verso questo fine si soffre con accettazione, tendendo a questo fine si agisce, tendendo a questo fine si prega. Dio mio, concedetemi di diventare nulla. Pag. 46.2.
Se il grano non muore … Deve morire per liberare energia che porta in se perché se ne formino altre combinazioni.
Egualmente noi dobbiamo morire per liberare l’energia schiava dell’attaccamento, per possedere una energia libera suscettibile di entrare in un rapporto vero con le cose. Pag. 47.1.
E’ vero, ma se la parafrasi grano – uomo è valida, è altrettanto vero che l’uomo giunge alla morte dopo aver assolto all’ “obbligo” della vita. L’energia che libera è quella delle esperienze che trasmette operando nell’arco di tutta la sua vita, il cui naturale svolgimento – infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia – risponde al disegno divino.
Esiste davvero una energia “schiava dell’attaccamento” ? No, perché l’uomo è conscio della sua condizione di precarietà sulla terra, ma nascendo contrae un obbligo alla vita nei confronti di Dio e dei suoi simili L’accanimento terapeutico per i malati terminali potrebbe inserirsi in questa logica. Potrebbe essere questa l’energia “schiava dell’attaccamento” da liberare, ma se anche fosse, si tratta pur sempre di casi limite contro i quali si va tuttavia delineando un vasto movimento di opinione largamente condivisibile. Lasciarsi morire a 34 anni significa invece venire meno all’ “obbligo” contratto.
Tutto ciò che vedo, odo, respiro, tocco, mangio, tutti gli esseri che incontro, io privo tutto ciò del contatto con Dio e privo Dio del contatto con tutto ciò nella misura in cui qualcosa in me dice io. Posso fare qualcosa per tutto ciò e per Dio, ritirarmi, rispettare il dialogo. Pag. 53.1.
Creatura del creato, non ritiene di farne parte, non si integra nel creato, anzi la mia presenza è indiscreta, come se mi trovassi tra due amanti o due amici (Pag. 53.2). E la morte involando ai miei occhi lo splendore del giorno, alla luce ch’essi macchiavano restituisce l’intera purezza (Pag. 54.1). Senso di estraneità dichiarato, ma non sufficientemente chiarito; la sua appartenenza al mondo è un incidente cui occorre rimediare ritirandosi. Quando ? Il rigido adempimento del dovere semplicemente umano è una condizione perché possa ritirarmi. Esso consuma poco a poco le corde che mi trattengono qui e che mi impediscono di ritirarmi. (Pag. 53.1). Ma chi stabilisce quando il dovere umano è completamente adempiuto ? Può l’uomo arrogarsi il diritto di “staccare la spina” ? La morale cristiana, che non concepisce la “morte dolce” procurata da soggetti terzi nei confronti di malati terminali , non accetta il “farsi da parte” liberamente determinato. Sulla condizione di debitrice della vita nei confronti di Dio Simone non ha dubbi: Iddio mi ha dato l’essere perché glielo restituisca” Pag. 52.1; le manca però il passo successivo: chi decide il tempo della restituzione.
Se la mia salvezza eterna fosse su questo tavolo sotto la forma di un oggetto; e bastasse stendere la mano per afferrarla, non tenderei la mano senza averne ricevuto l’ordine. Pag. 56.4.
C’è contraddizione. Ammesso che avesse intravisto la salvezza, chi mai le avrà potuto dare l’ordine di lasciarsi morire ? Forse non cercava la salvezza e quei comportamenti erano soltanto segni di disperazione.
Ho bisogno che Dio mi prenda di forza; perché se ora la morte, sopprimendo lo schermo della carne, mi mettesse davanti al suo volto, io fuggirei. Pag. 70.
E’ evidentemente una fase superata, perché Dio non l’ha presa di forza.
Desiderare l’amicizia è un grave errore. L’amicizia deve essere una gioia gratuita come quelle che danno l’arte, o la vita. Bisogna rifiutarla per essere degni di riceverla.
Ma perché ? Non è chiarito.
Se tu non sei mai stata amata, ciò non è avvenuto per caso … Desiderare di sfuggire alla solitudine è una viltà. L’amicizia non la si cerca, non la si sogna, non la si desidera; la si esercita (è una virtù). Pagg. 77-78.
Niente vera amicizia, niente vero amore. Sono così spezzate altre due gomene che legano la barca della vita al suo ormeggio. La barca è ora libera di inabissarsi nel gorgo.
L’agonia è la suprema notte oscura della quale anche i perfetti hanno bisogno per l’assoluta purezza; per questo, meglio sia amara. Pag. 86.4.
Lasciarsi morire lentamente è viatico verso la perfezione. Si sentiva perfetta, tanto da aspirare all’assoluta purezza.
Due concezioni dell’inferno. Quella comune (sofferenza senza consolazione); la mia (falsa beatitudine, credersi per errore in paradiso). Pag. 90.5.
Simone ha sempre ripugnato di essere confusa nel gregge e questa concezione dell’inferno, rigorosamente diversa da quella comune, non sfugge alla regola; non sarebbe, tuttavia interessante se non lasciasse aperto un dubbio: l’inferno dell’aldilà è per lei quasi preferibile all’inferno su questa terra ? Se così fosse il “passaggio” non dovrebbe essere terrificante. Non è dunque il caso di procrastinare.
Avvenire. Si pensa che verrà domani; fino al momento in cui si pensa che non verrà mai. Pag. 92.1
Simone deve aver atteso indarno parecchi domani, poi ha capito che il suo avvenire non sarebbe mai arrivato… Fine della speranza.
Egualmente, bisogna amar molto la vita per amar ancor di più la morte. Pag. 94.1.
E’ un principio discutibile. Simone ha certamente amato la morte, ma non è sicuro che abbia amato molto la vita. L’ha piuttosto aggredita, violentata, bevuta avidamente. E’ verosimile che abbia smesso di amarla quando ha verificato l’inanità dei suoi sforzi.
La vita umana è impossibile. Ma solo l’infelicità lo fa sentire. Pag. 104.1.
E’ possibile che tutte le sue esperienze non solo non l’abbiano resa felice, ma l’abbiano fatta precipitare, in sede di bilancio, nella infelicità, quella infelicità che le ha fatto toccare l’impossibilità della vita umana.
Quando qualcosa sembra impossibile ad ottenersi, per quanto ci si sforzi, ciò indica un limite insuperabile al livello in cui siamo e la necessità di un cambiamento di livello, di una rottura del nostro soffitto. Esaurirsi in sforzi a questo livello ci degrada. Meglio accettare il limite, contemplarlo e assaporarne tutta l’amarezza. Pag. 106.1
L’accettazione del limite è gesto maturo, quasi eroico per chi aveva fatto dell’impegno il credo della propria vita. Tuttavia, come non divisare in quell’assaporare l’amarezza una voluttà di annientamento ?
Le violenze su di sè sono permesse solo quando procedono dalla ragione (per eseguire quel che ci rappresentiamo chiaramente come un dovere – oppure quando sono imposte da un irresistibile impulso della grazia – ma in questo caso la violenza non procede da noi). Pag. 132.
Non che ci fossero dubbi, ma questo passo conferma che il suo disegno di autoannientamento “procede dalla ragione”, certamente non per assolvere ad un dovere; potremmo ritenere che sia imposto da un “irresistibile impulso della grazia”
La speranza è la conoscenza che il male, quale lo si porta in se, è limitato e che il più piccolo orientamento dell’anima verso il bene, foss’anche solo per la durata di un istante, ne abolisce un po’; e che, nel regno dello spirituale, ogni bene, infallibilmente, genera altro bene. Coloro che non lo sanno sono votati al supplizio delle Danaidi. Pag. 134.3.
Una definizione luminosa della speranza, in contrasto col clima cupo che grava su tutte le riflessioni e con la rinuncia al tempo (Pag. 32) e l’inutile attesa dell’avvenire (Pag. 92.1) La rinuncia all’avvenire non è forse rinuncia alla speranza ?
Che cosa è sacrilego distruggere ? Non quel che è basso, perché non ha importanza. Non quel che è alto, perché, anche se lo si volesse, non si può toccarlo. I metaxù. I metaxù sono la regione del bene e del male.
Non privare nessun essere umano dei suoi metaxù, cioè dei suoi beni relativi e confusi (casa, patria, tradizioni, cultura, ecc.) che riscaldano e nutrono l’anima e senza i quali, eccetto per la santità, una vita umana non è possibile. Pag. 152.5.
Alla fine del suo tempo, Simone si scopre priva dei suoi metaxù e la vita le è ormai impossibile.
… al di fuori dei legami fraterni, trattare gli uomini come uno spettacolo e non cercarne mai l’amicizia… Soprattutto non permettersi mai di sognare l’amicizia. Tutto si paga.
Esser disposta solo a te stessa. Pag. 161.1. Sapevamo già che “desiderare l’amicizia è un grave errore” (77.2); ora apprendiamo che non bisogna né cercarla, né sognarla. Simone è solo amica di se stessa. Le basterà ? No.
Anche le considerazioni di ordine culturale si ricollegano alla religione, alla parabola dei talenti.
Narra il Vangelo (Mt. 25, 14-30) che il padrone, dovendo partire convocò i servi e affidò loro dei talenti. Due di essi li investirono e ne raddoppiarono il valore; il terzo, pavido, corse a riporli sotto un mattone, nel timore di furti. Quando il padrone tornò, i primi furono apprezzati e premiati, il terzo rimproverato e punito per la sua neghittosità.
Simone non è certamente riconducibile al terzo soggetto; i suoi talenti ha saputo investirli con acutezza geniale, ma è come se, in presenza di una crisi dei mercati monetari, li avesse poi ritirati quando le potenziali redditività dell’investimento non erano affatto esaurite.
Fuor di metafora, abbiamo già rilevato come il XX secolo abbia offerto a Simone il suo periodo peggiore. Ma oltre il 1945, dopo la notte fonda della guerra, si è dischiuso per l’Europa e per il mondo – pur con tutte le contraddizioni – un periodo fulgido di ricostruzione morale e materiale per l’umanità Si è tenuto il Concilio Ecumenico che ha aperto nuovi
orizzonti alla Chiesa mondiale, e si è chiusa nel 1989 l’esperienza dei regimi comunisti (ultimo capitolo del secolo breve del citato studioso).
La speranza – confessa don Primo Mazzolari – vede la spiga quando i miei occhi di carne non vedono che il seme che marcisce. Similmente Simone si è fermata al panorama marcescente che la circondava, senza avere la forza di proiettare lo sguardo verso il dopoguerra, un’epoca di fermenti politici, culturali e spirituali molto intensa, alla quale un’intelligenza viva come la sua avrebbe potuto fornire un contributo significativo. Vero è che per lei le contraddizioni non debbono essere necessariamente sanate, perché qualunque verità racchiude una contraddizione, tuttavia nel 1943 la sua ricerca della Verità e del Bene non poteva ritenersi esaurita (ammesso che una tale ricerca possa mai esaurirsi).
Perché morire ?
Stanchezza nella lotta, insoddisfazione per i risultati raggiunti e sfiducia nella possibilità di raggiungerli, solitudine, incomprensione, estremo messaggio di partecipazione dalla parte dei vinti e dei deboli, forse anche una sorta di narcisismo.
Queste e altre le motivazioni che si possono addurre.
Lei che aveva teorizzato e praticato lo stile di vita della partecipazione diretta, elevando il “c’ero anch’io” al livello di vero e proprio credo civile, a questo punto getta la spugna. I suoi smarrimenti avrebbero forse trovato soluzioni idonee e ne avrebbe tratto vantaggio la cultura.
La sua morte acerba ci lascia opere inconfutabili, il suo insegnamento contro qualunque violenza e oppressione religiosa e politica, la sua profetica visione sulla identicità della natura dei totalitarismi di destra e di sinistra, ma ci lascia anche intuizioni e bagliori che non illuminano il tutto.
Maturando avrebbe donato a se e agli altri la luce che cercava. Peccato!
Fonte: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/weil/ombragrazia.htm