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‘Un uomo finito’, la vitalità e le frustrazioni di Papini

“Un uomo finito” è l’opera più celebre di Papini (1881-1956), pubblicata dalla libreria della Voce nel 1913, ristampata più volte e tradotta in tutto il mondo.

Come hanno scritto in molti il romanzo è a metà strada tra l’autobiografia ed il diario. Un uomo finito riassume le vicissitudini, le sfide intellettuali, i percorsi mentali, l‘iter creativo, gli stati e gli strati psichici di Papini. In queste pagine sono racchiusi l’impegno e la vitalità dello scrittore fiorentino, che esplora da par suo il proprio Sé.

Il disincanto di Papini

Grazie alla sua onestà intellettuale riesce ad essere chiaro, lucido, disincantato e non lascia mai spazio ad errori di interpretazioni. Si dimostra capace di introspezione e allo stesso tempo di riflessione senza vana gloria, senza alcuna accortezza. Non si lascia abbindolare dalla memoria  che spesso migliora il passato e lo mistifica, presentandolo come molto diverso da quello che è stato realmente.

Papini si dimostra per quello che è e per quello che è stato, senza filtri, maschere o inganni. Il lettore avverte che si trova al cospetto della testimonianza di un artista memorabile, di una coscienza che, pur tra errori e pecche, ha sempre cercato di essere attenta a tutte le problematiche del suo tempo.

L’anima di Papini

In questa opera c’è tutto Papini: scontroso, ieratico, pensoso, tormentato, inquieto, cinico, autoesaltato, sconfitto, ambizioso oltremodo. In 50 brevi capitoli sono descritti i suoi primi trenta anni di vita. Innanzitutto esordisce scrivendo che non ha mai avuto fanciullezza. È nato povero e fin dai primi anni è sempre stato solo, schivo, appartato.

Da bambino subiva angherie ed umiliazioni da parte dei coetanei, che oggi definiremmo atti di bullismo. La sua vita fu sempre contraddistinta dalla “smania di sapere”.

Iniziò a formarsi con la libreria di soli cento volumi del babbo e poi accrebbe il suo sapere andando nelle librerie aperte a tutti, dove però potevano entrare solo le persone che avevano più di sedici anni.

Un uomo geniale e complessato

L’adolescenza fu vissuta tra la campagna e la biblioteca. Le umiliazioni, i complessi, le frustrazioni per un meccanismo di compensazione, descritto da Adler (secondo cui dietro ad un complesso di superiorità si celerebbe sempre un complesso di inferiorità), faranno scaturire in lui la smania di grandezza, la voglia irrefrenabile di essere tutto, di sapere tutto.

Un poco impropriamente questo atteggiamento mentale ed esistenziale viene chiamato da alcuni complesso di Dio, cioè il desiderio di voler annientare Dio e di farne le veci, di sostituirsi ad una divinità che sembra assente o indifferente. Ma siamo tutti esseri umani e dall’onnipotenza si finisce sempre nel senso di impotenza.

Papini e Dio

A tratti sembra che lo scrittore fiorentino non avesse coscienza del suo declino, della sua decadenza, della sua mortalità.  Tutti ci domandiamo come il cyborg di Blade runner quale è il trucco per non spegnersi, per non guastarsi. Ma essere immortali forse non è la soluzione.

La letteratura con Dorian Gray e il Faust ci avverte che non sarebbe una buona cosa. Forse Papini aveva coscienza di avere scritto opere immortali. Vivere comporta delle contrarietà. Come scrisse Alessandro Morandotti “tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l’uso e la data di scadenza”.

“L’inferno sono gli altri”

Però certe cose di fondamentale importanza purtroppo non è dato saperle. A Papini queste questioni stavano molto a cuore, eppure, nonostante il suo grande acume, non trovò mai la quadra. Infatti sono cose che ci trascendono come si evinci da Un uomo finito.

Per Papini come per Sartre gli altri sono l’inferno. Cerca conforto nelle opere dei grandi autori già morti e disprezza “i piccoli vivi”. La sua vita è stata vissuta pienamente, a tratti titanicamente, per alcuni anni all’insegna del superomismo. Non ha mai risparmiato energie. La sua gioventù è stata caratterizzata dal furore idealistico, dall’ubriacatura ideologica, dall’entusiasmo intellettuale, così come nella sua maturità si è distinto per il fervore cattolico.

Ma Papini molto probabilmente era un maniaco-depressivo. A dimostrazione di queste dinamiche psichiche e di questo disturbo dell’umore c’è la sua dichiarazione di scrivere “per sfogo”. Da voler essere un semidio onnipotente e onnisciente, eccolo piombare nel ripiegamento interiore, nel crollo psichico, nella “discesa”, nella malattia, nella depressione.

Papini, Soffici e Campana

Probabilmente se fosse vissuto oggigiorno a Papini gli sarebbe stato diagnosticato un disturbo bipolare, avrebbe fatto analisi, avrebbe assunto giornalmente una pasticca di Depakin e non avrebbe scritto niente di memorabile.

Papini ad ogni modo è un genio che ha il dubbio di essere “un imbecille”, “un ignorante”, che non ha la minima conoscenza di sé stesso né degli altri. È un uomo in fin dei conti che ha chiesto l’impossibile a sé stesso e agli altri.

Nonostante alcune sue tare come i pregiudizi nei confronti delle donne (ma anche lui era un uomo del suo tempo e certi pregiudizi all’epoca erano diffusi), dalla lettura di Un uomo finito è possibile trarre beneficio e godimento intellettuale, interiore. A trenta anni nessuno è un uomo finito, nemmeno uno che come Papini ha iniziato molte cose ed ha cercato di voler essere tutto vanamente.

Un uomo infinito?

Questa impresa era destinata comunque al fallimento. Ma dimostrò nel resto della sua vita che aveva ancora molte cose da dire. Piuttosto Papini è stato dimenticato oggi perché su di lui ci sono luci (il suo ingegno fu ineguagliabile) ma anche ombre: 1) fu interventista durante la prima guerra mondiale, anche se poi ebbe grandi rimorsi di coscienza. 2) per molti nascose insieme ad Ardengo Soffici il manoscritto “Il più lungo giorno” di Dino Campana, che il poeta di Marradi aveva dato loro per un giudizio critico.

Un uomo finito dunque descrive in modo magistrale la giovinezza, la formazione culturale, l’apprendistato, le contraddizioni, le amicizie di un grande intellettuale della sua epoca; un intellettuale che crebbe con Schopenhauer e con Stirner, che fu condizionato da D’Annunzio, che fu da giovane irrazionalista, occultista, nazionalista, idealista, futurista.

Con un semplice gioco di parole Papini più che un uomo finito cercò di essere un uomo infinito, ma ciò è impossibile per tutti. Fu un uomo dalle innumerevoli qualità che a forza di volere troppo rischiò banalmente di non stringere nulla, rischiò di essere un uomo senza qualità, un Ulrich come tanti.

L’interrogativo che lo porta a scrivere questa opera, ovvero “la vita è degna di essere vissuta?”, dopo averla letta, non può che trovare risposta affermativa.

 

Di Davide Morelli

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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