Amelia Rosselli (1930-1996) è una poetessa unica nel suo genere. Aploide, disimpegnata e acattolica, in pieno contrasto con l’Italia del suo tempo. La Rosselli nasce a Parigi nel 1930 da Carlo Rosselli, esule italiano e fervente idealista anti-fascista che viene assassinato, assieme al fratello, quando Amelia ha appena 7 anni.
Dopo la morte del padre e dello zio, per Amelia comincia una vita “nomade”, che la vede prima in Svizzera, in America e infine anche in Inghilterra, dove studia musica, letteratura e filosofia. Scopre l’Italia a sedici anni e vi si trasferisce permanentemente. Questo “ritardo” e questa vita da esule, lontana dal suo paese, danno alla donna una forte componente aploide, che resterà presente nelle sue opere successive.
In Italia collabora con varie riviste e lavora a varie traduzioni di autori stranieri, conoscendo intellettuali come Rocco Scotellaro, Carlo Levi e Pasolini. Comincia anche a pubblicare alcuni suoi lavori, come Variazioni belliche (1964), Serie ospedaliera (1969), Documento (1966-73). Nonostante questa fecondità letteraria ella in questi anni è turbata dalla morte della madre (1949) e da alcune vicissitudini biografiche che la porteranno a numerosi e continui esaurimenti nervosi. Fino alla fine della sua vita, nel 1996. Tra le sue opere ricordiamo: Sleep. Poesie in inglese (1992), La libellula (1985).
L’unicità della poetessa è da ricondursi oltre che alla sua storia e alla sua vita all’insegna della letteratura e della poesia, alla fondamentale caratteristica della sua opera. Il suo plurilinguismo e la sua voglia di infondere in ogni opera la musicalità e comporre una poesia come se si stesse componendo un opera musicale. Infatti si può cogliere il peso degli studi giovanili che ritorneranno sempre sotto vari aspetti nella sua variegata opera.
I fiori vengono in dono e poi si dilatano, è una poesia della raccolta Documento, e si presenta come un’osservazione e un’interpretazione della bellezza della vita e del mondo, con un pessimismo ed un amarezza sottile e cosmica:
I fiori vengono in dono e poi si dilatano
una sorveglianza acuta li silenzia
non stancarsi mai dei doni.
I fiori rappresentano un dono da fare, un dono semplice e immediato, che però riveste una profonda importanza. Il fiore viene dalla terra e della terra ha il sapore e la consistenza, così come l’uomo. Poi si dilatano perché sbocciano o perché appassiscono forse. E noi con la nostra sorveglianza, con il nostro contemplarli, facciamo silenzio nella loro vita e nella loro essenza, rendendoli semplici doni e scordandoci che essi sono anche esseri, così come può accadere con gli uomini.
Il mondo è un dente strappato
non chiedetemi perché
io oggi abbia tanti anni
la pioggia è sterile.
L’iniziale riflessione sull’allegria di ricevere un dono così semplice, ma prezioso, va sbiadendo nella triste constatazione del dolore del mondo, il mondo è un dente strappato, e il tempo passa senza neanche sentirlo sulla pelle, cambia i nostri volti senza nemmeno toccarci. E la pioggia diventa sterile, perché uccide i fiori e con essi la felicità.
Puntando ai semi distrutti
eri l’unione appassita che cercavo
rubare il cuore d’un altro per poi servirsene.
Qui il parallelo viene fatto per l’amore, il tempo tipico dei fiori, della felicità e della tristezza. Nella nostra fragilità, nei nostri semi distrutti che tentiamo di unire con altri semi distrutti per rinascere, si traduce il verso “rubare il cuore di un altro per servirsene”, infatti allo scopo di ricreare quell’iniziale felicità tipica dello sbocciare, del tempo in cui si è finalmente completi, si cercano altri fiori con cui combinarsi.
La speranza è un danno forse definitivo
le monete risuonano crude nel marmo
della mano.
La speranza è un danno che segna indelebilmente l’anima, infatti nel desiderio di avere e nell’impossibilità di avere si prova un’infelicità che smorza ogni possibile risvolto positivo di cui si parla nella terza strofa e le monete, che rappresentano la materialità, suonano come vuote e crude nella freddezza della nostra mano ormai inumana, che non sa cosa farsene delle monete, di questa superficialità che non ci appartiene.
Convincevo il mostro ad appartarsi
nelle stanze pulite d’un albergo immaginario
v’erano nei boschi piccole vipere imbalsamate.
Il mostro, la paura, viene immaginato come appartato in una stanza d’albergo, e nei boschi sembrano esserci pericoli inesistenti. Quasi a delineare un contrasto tra l’apparente sicurezza di una camera d’albergo, comoda e tranquilla e i boschi, che sembrerebbero essere oscuri e pieni di mostri. Il nido del terrore, del “mostro” però è nella camera d’albergo, perché il mostro siamo noi stessi e la nostra irrefrenabile irrequietudine, la negazione della nostra ancestrale componente animale.
Mi truccai a prete della poesia
ma ero morta alla vita
le viscere che si perdono
in un tafferuglio
ne muori spazzato via dalla scienza.
L’amarezza ora diventa personale. La bugia coltivata nelle varie strofe precedenti esce fuori e si proclama. La poesia era diventata solo un trucco per la poetessa, che si riscopre morta, falsa e le viscere vengono spazzate via da ciò che è diventato reale e non fittizio cioè la scienza.
Il mondo è sottile e piano:
pochi elefanti vi girano, ottusi.
Il giudizio finale è profondo e aspro. Il mondo è poca cosa, è banale e sono poche le grandi cose che ha e pochi i grandi ideali che vi sono, sono pochi ed anche ottusi, che non sentono ragioni, il mondo in pratica non cambierà mai.