Kostas Karyotakis è la figura più rappresentativa della generazione dei poeti greci degli anni Venti, caratterizzata dalla lezione del simbolismo francese, soprattutto di Baudelaire, quindi dall’identificazione dell’arte con la vita; e, all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, dal tentativo di creare una poesia militante. Dettami che connotarono il particolare percorso poetico di Karyotakis, anche se il poeta non s’identificò mai con nessuno di essi.
La raccolta d’esordio, Il dolore dell’uomo e delle cose (1919), suscitò l’interesse della critica, ma con la seconda, Nepenti (1921) il poeta si affermò definitivamente negli ambienti ateniesi. Il titolo Nepenti, da quanto ci informa il curatore del volume, Filippomaria Pontani, sarebbe un richiamo al pharmakon népenthès di Baudelaire (cioè l’oppio), accostamento confermato dalla Ballata per i poeti senza gloria d’ogni tempo in cui il riferimento ai maudits è esplicito: «Hanno vissuto sconsolati i Poe / hanno vissuto morti i Baudelaire, / ma è data loro l’Immortalità».
Kostas Karyotakis: una scrittura realistica e ironica
Con la terza raccolta, Elegie e Satire (1927), si delinea una profonda trasformazione del percorso poetico di Karyotakis: la scrittura è realistica, distaccata, ironica nel suo rapportarsi ai valori sociali; a ridimensionare valori e idee personali contribuiva una sorta di autoironia che sconfina nel sarcasmo. Le vicende personali (la routine dell’impiegato statale da funzionario di prefettura, la sifilide, l’incapacità a risolvere il legame con la poetessa Maria Poliduri, sua collega d’ufficio) incoraggiarono questo cambiamento. Elegie e Satire è stata avvicinata alla poetica di Kavafis ma, se l’ironia kavafiana è comprensiva verso le debolezze umane, la pungente ironia di Kariotakis tradisce un certo disprezzo per sé e per gli altri: «I travet si consumano e si scaricano / come pile a due a due dentro gli uffici. (Da elettricisti, per sostituirli, / fungeranno la Morte ed il Governo). // Seduti su una sedia, scarabocchiano / fogli bianchi e innocenti, senza scopo.(…) // E a loro resta solo quell’onore / quando risalgono le strade, a sera, / alle otto: la carica li spinge. // Castagne in forno, e pensano alle leggi, / pensano al cambio valutario, e scrollano / le spalle, questi poveri travet». (Impiegati statali).
Benché dominata dall’idea di sfinimento e di dissoluzione, la lirica di Karyotakis trae vigore dalla sua forza espressiva; le stesse dissonanze, create dalla difformità dei registri lessicali e stilistici e delle soluzioni metriche, si potrebbero valutare come manifestazioni del dissidio, caratteriale e politico, che lacerò il poeta. L’eredità della sua lezione, subito degenerata nel lamentoso fenomeno del karyotakismo, fu poi raccolta con ben altri esiti da alcuni dei maggiori poeti della generazione degli anni Trenta.
L’autoironia non risparmia nemmeno i suoi versi: «Non è più un canto, questo, non è un’eco / umana. Senti: arriva / come l’ultimo grido, a notte fonda, / di qualcuno che è morto» (Critica). Karyotakis si tolse la vita nel 1928 con un colpo di pistola, a Preveza, in Epiro, dove era stato trasferito. Il suo gesto concludeva l’identificazione tra l’artista e la sua arte. In Suicidi ideali, una delle liriche più intense di Elegie e Satire, dopo una descrizione particolareggiata dei preparativi alla morte degli aspiranti suicidi, dichiara che si tratta di gesti inutili di un’idea, quella di togliersi la vita, giacché sono «sicuri in cuore che rimanderanno». Il valore della poesia di Karyotakis è stato riconosciuto, tra gli altri, anche da Giorgio Seferis e Ghiannis Ritsos che gli dedicò alcuni versi. Essa costituisce un capitolo importante nella storia della letteratura greca.
Fama postuma
Vuole la nostra morte la natura infinita,
la chiedono le bocche purpuree dei fiori.
Se torna primavera, torna per poi lasciarci,
e dopo non saremo più neppure ombre d’ombre.
La nostra morte aspettano il sole e la sua luce.
Vedremo un’altra volta un simile tramonto
trionfale, e fuggiremo dalle sere d’aprile,
dirigendoci ai regni oscuri di laggiù.
Forse, dietro di noi i versi resteranno,
dieci versi soltanto resteranno, un po’ come
i piccioni che i naufraghi mandano alla ventura,
e recano il messaggio quando non è più tempo.
Fonte: Semicerchio,it