Onore, amor patrio, speranza: i versi di Robert Brasillach, ancora oggi, dimostrano di essere più forti della tremenda condanna che la storia gli ha inflitto. Sebbene in questo caso l’istanza politica si intersechi in profondità con l’aspetto meramente letterario, nella presente recensione de I poemi di Fresnes si tenterà di rimanere sul piano della poesia lasciando a chi s’intende di Morale, assoluzioni e condanne. Prima di violare con rispetto i versi della raccolta vergata da Robert Brasillach tra il 1944 e il 1945, è forse utile menzionare sinteticamente la vita e gli accadimenti che condussero alla morte l’aedo incompreso di una Francia sepolta dalla colpa, dalla vittoria, dalla storia.
Robert Brasillach nasce a Perpignan nel 1909. Il padre muore in guerra quando il futuro poeta ha cinque anni, ma il tragico lutto non impedisce al ragazzo di perseguire una brillante carriera scolastica al Liceo Louis-Le-Grand e alla Scuola Normale Superiore e di farsi notare come saggista, giornalista, romanziere e critico cinematografico. Robert scrive sin da giovanissimo per varie riviste quali Revue française, Revue universelle, Candide e, a soli 22 anni, contribuisce alla pagina letteraria dell’Action française divenendone il responsabile. Si staccherà dal giornale nel 1931 per collaborare col periodico Je suis partout del quale, nel 1937, diverrà redattore capo. Nello stesso 1937 Brasillach è presente a Norimberga e stende il resoconto Cent heures chez Hitler – della esperienza troviamo la eco nel suo romanzo principale, Les Sept couleurs. Nel 1939 il giovane viene chiamato alle armi per far fronte alla incontenibile avanzata della Wehrmacht e nel 1940 è catturato dai nemici; rilasciato nel 1941, riprende il suo posto al giornale.
Accostatosi già prima del conflitto da una posizione originale ai movimenti della destra radicale europea, l’autore parteggia durante la Seconda guerra mondiale per l’Asse che appoggia dalle pagine di Je suis partout – l’organo di stampa si era progressivamente avvicinato al nazionalsocialismo e, all’indomani della sconfitta tedesca, verrà accusato di aver pubblicato vari nomi di ebrei e di partigiani francesi; accusa che dopo la guerra coinvolgerà lo stesso Brasillach a causa del suo ruolo all’interno della redazione. Nel 1943 il giornalista abbandona il settimanale non solo perché la sua sarebbe stata un’autorità senza autorità essendo a suo avviso il vero capo della redazione Pierre Gaxotte, ma perché sostenitore di una linea che, in virtù di una collaborazione nella dignità, potesse permettere al fascismo francese di non essere succube di quello hitleriano e di avere un ruolo attivo nel nuovo ordine mondiale. È inoltre restio a proclamare anzitempo la vittoria della Germania in un periodo in cui questa pareva assai problematica.
Collabora allora soltanto per Révolution nationale insieme a un altro “maledetto” quale fu Drieu La Rochelle, col quale condivide sostanzialmente l’idea di un socialismo fascista che ritornerà nella celebre definizione brasillachiana di “fascismo immenso e rosso” – presente nella Lettera a un ragazzo della classe ’40, vergata durante l’ultima detenzione. Quando gli Alleati sbarcano in Normandia, Robert rifiuta di espatriare e si nasconde nel Quartiere Latino a Parigi. Le autorità francesi imprigionano sua madre, e il poeta, per paura che nel clima d’odio determinatosi pagasse al suo posto, si costituisce il 14 settembre dello stesso anno. Imprigionato a causa delle sue idee politiche, per il contenuto dei suoi articoli e per “intelligenza col nemico”, Brasillach attende il processo nel carcere parigino di Fresnes sino al 19 gennaio 1945, allorquando il tribunale della Senna lo condanna a morte. Si dice che durante il processo un uomo, udito il verdetto, abbia gridato: è una vergogna e che il poeta abbia risposto calmo: è un onore.
Essendo egli considerato, a dispetto delle sue idee, un intellettuale di autentico talento, vari accademici e personaggi del mondo della cultura come Paul Valéry, Colette, Albert Camus e Jean Cocteau aderiscono alla domanda di grazia presentata a de Gaulle. Il generale, conscio del valore simbolico che la condanna avrebbe avuto e certo che anche nel mondo delle lettere, il talento è una responsabilità, non concede la grazia e alle ore 9 del 6 febbraio 1945 Brasillach viene passato per le armi presso il forte di Montrouge mentre grida davanti a dodici bocche di fuoco:
Coraggio!
e poi,
Viva la Francia!
Sin dai primi versi dedicati al suo avvocato Jacques Isorni, Brasillach vuole essere uno specchio di tempi mal ispirati per far rivivere in futuro la memoria dei vinti che furono valorosi. Come al tempo di Andrea Chénier, il poeta ghigliottinato dai giacobini, anche ora la plebe chiede “morte” e, come alter ego dello stesso Chénier, il prigioniero di Fresnes disdegna grida e lamenti, mentre, in attimi che tornano uguali, il fratello dal collo mozzato tende la mano a quelli che vengono trascinati al palo. Il prigioniero esperisce il distacco dal mondo del quale – recita come un mantra il verso di un carme – egli oramai non sa nulla potendo solo essere un nuovo Robinson che costruisce il mondo fra quattro mura e che si angoscia per il destino dei suoi cari – Dio li salvi dall’odio, e io non so nulla. Dalla “stazione soffocata” della prigione in cui ogni scricchiolio quotidiano conduce alle amate contingenze della realtà esterna, Brasillach s’invola la notte cercando le fresche gote dei suoi, gli alberi rossi di Sceaux e, in un percorso di appassionato avvicinamento metafisico, invoca Dio, al quale dedica dei Salmi poetici. Forse grazie a questo sentire che riempie di sacrale eternità il nulla della galera, le sbarre non riescono a occultare il cielo e, anzi, appare una speranza che sa di elementari piaceri impastati di terra, di affetti passati, di sensazioni carnali e di santa, immortale giovinezza.
L’ispirato internato chiama a sé tutti i prigionieri della terra di cui non si saprà mai più nulla, i deportati perduti nell’oscurità delle lande, gli operai rinchiusi, i condannati barcollanti nelle miniere di sale, chi è braccato dalla polizia – tutti questi fantasmi dal destino comune si leveranno un giorno dal loro silenzio di morte. Ma ora, prima che i morti risorgano in un vagheggiato Giorno del Giudizio, il recluso sente il sapore del sangue della patria, delle gocce stillanti dal corpo dei fratelli e dei nemici – il sangue degli avversari, rappreso sulle nostre bandiere, come uno strato di ghiaccio. Quando – chiede Brasillach a Dio – “vedremo, stagione tardiva, germogliare da tutto il sangue versato, la messe desiderata?”. Insieme a questi destinali interrogativi, nella lirica “Il mio paese mi fa male” affiora il dolore per la Francia e ancora la consapevolezza di non voler chiedere altro se non la vita, gli amici, la giovinezza, i giuochi dei fanciulli, la casa e il mare, e la Senna, e i libri, tutte le piccole cose disperse nella tempesta. Anche se forse sarebbe meglio tacere:
perché solo il silenzio, che cade sulla riva, resta ancora degno del canto della primavera fuggita e cosparge sul fuoco delle ferite il balsamo sotto il quale il cuore non sanguina più.
Tra queste parole colme di paradossale silenzio arriva il dicembre 1944 e con esso l’ultimo Natale. Il Natale trova in carcere il suo significato genuino non essendo per i fortunati, ma per i maltrattati, i duri, per quelli che non ebbero una vita dolce: il Natale della ragazza che batte il marciapiede, dei ragazzi che seguivano la scuola malvolentieri, di quelli che ridono nella sventura, dei poveri diavoli traditi e dei giovani di buona razza. Questo Natale senza albero, doni, focolare, allegria non è il Natale di chi abbandona i propri ragazzi, di chi scappa: è il Natale dell’infanzia che rifulge nell’ombra dell’assenza scongiurando incredibilmente la malasorte nella fioritura di una incomprensibile e gioiosa attesa. L’attesa messianica che i proscritti con i Santi possano un giorno formare l’eterna Corte di Giustizia. Allora i giudici che non hanno ascoltato, i vescovi che hanno giurato ciò che pareva loro, i procuratori che fanno tremare la schiena saranno giudicati da tutti quelli che con gli anni hanno perduto sangue e vigore, a causa di giudici e spie, di Caifa e di Giuda. Questi, i condannati in terra, vedranno il grande Condannato, re di tutti i condannati terreni, aprire per giudici e giudicati il tempo del grande cambio.
Emblematica risulta la poesia Il testamento di un condannato in cui Brasillach scrive che i suoi accusatori possono togliergli tutto tranne Amore e Coraggio – non sono sotto processo. L’autore – che sente approssimarsi il momento della dipartita – lascia l’anima a Dio certo di non aver peccato mai contro la speranza; il corpo è lasciato in terra sconsacrata alla patria per la quale, benché l’abbia scacciato, il poeta nutre un amore incondizionato. Lascia se stesso alla prima immagine – tenerezza, coraggio, sole tra i singhiozzi, fierezza nei tempi peggiori – alla madre – a te che non importa l’età del tuo bambino – per salvare la quale si era consegnato e immolato. Lascia alla sorella i primi giochi, le passeggiate infantili nonché il disprezzo dei cuori vili, il silenzio che ci riunisce, e l’onore che non s’infrange. Al fratello Maurice concede soprattutto la giovinezza immortale e il coraggio di guardare tutto con fiducia accettando in ogni caso il premio della sorte.
Nel testamento c’è spazio anche per gli amici, fuoco dell’avvenire, per una misteriosa amica e per i camerati dei fili spinati accesi come lui da una limpida fede. Ai giovani del suo paese, testimoni del suo amor patrio, dona il sangue custodito e agli ultimi arrivati in carcere le ore che precedono il trapasso. Il poeta percepisce la vita sfuggire come acqua tra le mani e ha la sensazione che nei pressi della morte la Verità sia finalmente vicina. All’interno di questa densità metafisica che concentra in pochi giorni le passioni di una vita, resta viva una certezza: “ma bisognava sopra ogni cosa conservare l’onore!”. E proprio all’Onore è dedicata una delle liriche suggestive della raccolta:
Alla culla del giovane Onore
Sono state viste due fate recare
I loro doni per il giovane Onore:
Il coraggio e la gaiezza.
—A che cosa serve un dono come il vostro?
Si chiede alla prima.
—Quasi a nulla, essa risponde:
A dare coraggio agli altri.
—L’altro, si chiede alla seconda,
non è forse di troppo per l’Onore?
—Un fanciullo, risponde la fata,
ha sempre bisogno di un fiore.
Non è solo l’Onore che informa come un habitus sovraumano l’ethos del poeta, ma anche una caratteristica gioia di vivere, la gaiezza, una certa volontà olimpica, un sentire solare. Brasillach quindi, costruendo un’atmosfera fortemente mistica che facilita la fusione del suo spirito col piano trascendente, lascia sì spazio alla nostalgia, al dolore e al senso di riscatto (“il grande cambio”), ma i valori che affiorano maggiormente dalle sue appassionate parole sono la giovinezza, l’amore e la Speranza. erto, soprattutto gli ultimi giorni, seppur vissuti con estremo decoro, sono duri e umanamente insopportabili:
L’uccellatore s’avvicina col suo sacco in mano: la mia vita è un uccello nelle reti del cacciatore.
In una identificazione col Cristo del Monte degli Ulivi, il poeta scrive:
Ma se ancora volete la mia attesa Signore, se volete la nera alba e la pena più dura; a voi l’olocausto, a voi il duro dolore, e che sia fatta la Vostra volontà e non la mia.
Tuttavia, il giorno prima dell’esecuzione, Brasillach non pensa solo a se stesso e ricorda i ragazzi uccisi dalla polizia il 6 febbraio 1934 durante una manifestazione della gioventù nazionale che voleva le dimissioni del governo Daladier:
Le ultime fucilate continuano a lampeggiare
Nel giorno nebbioso, nel quale sono caduti i nostri.
Con dodici anni di ritardo, sarò dunque fra voi?
A voi penso stasera, o morti di Febbraio!
Nei suoi versi Brasillach ha cercato di fissare la morte negli occhi, consapevole che questa come il sole non possa essere guardata in faccia. L’autore ritiene di non avere nulla di stoico e di avere scritto per non lasciare di sé una immagine indegna. Confessa altresì come le ultime tre sere abbia letto la Passione di Cristo (ogni sera tutti e quattro gli evangelisti) e come la preghiera abbia reso possibile, nonostante tutto, un sonno calmo.
Il mattino il prete è venuto con la comunione. Pensavo con dolcezza a tutti quelli che amavo e a tutti quelli che avevo conosciuto nella mia vita, e pensavo con dolore al loro dolore. Ma mi sono sforzato il più possibile di accettare.
Eppure, malgrado questa accettazione priva di rancore, continua a essere ucciso e forse a risorgere anche oggi, Robert Brasillach, il poeta nero, in ogni tempo un maledetto proscritto.