Nel settembre 1955 un gruppo di autorevoli intellettuali islamici e italiani si riunisce a Venezia, presso la Fondazione Cini, per discutere dei rapporto tra la civiltà islamica e quella occidentale. Prendono parte i maggiori studiosi dell’Islam, da Giorgio Levi della Vida ad Alessandro Bausani, a Francesco Gabrieli; un economista, Pasquale Saraceno; un giurista, Francesco Carnelutti, che all’incontro dà la forma di un vero e proprio dibattimento tra accusa (i paesi mussulmani) e difesa (l’Occidente), e uno scrittore, Guido Piovène, che due anni dopo pubblica il resoconto di tali conversazioni dal titolo Processo dell’Islam alla civiltà occidentale.
Lucido e disincantato osservatore, Guido Piovène non solo riesce a restituire con puntualità al lettore la fitta schermaglia degli interventi, ma assume il ruolo di commentatore appassionato, fino a diventare protagonista e giudice della discussione nelle riflessioni conclusive. Processo dell’Islam alla civiltà occidentale è un documento prezioso e di estrema attualità per le tematiche trattate, tra cui la compatibilità tra Islam e democrazia e la possibilità di integrazione tra l’universo mussulmano e il sistema economico occidentale. Piovène si dimostra abile nel coniugare i toni brillanti del reportage culturale con una prosa intrisa di umori filosofici e di suggestioni letterarie, lasciando emergere quel suo tipico carattere tragico di una scissione dell’uomo e della sua storia destinata a non risanarsi.
I ’50 sono gli anni degli ultimi fuochi del colonialismo, pensiamo alla crisi di Suez, ai rapporti tra Francia e Algeria, quando al rifiuto degli U.S.A. di finanziare la costruzione della diga di Assuan, Nasser rispose nazionalizzando la Compagnia del canale e assicurando il proprio appoggio alla ribellione algerina, provocando l’immediata reazione di Israele che, con il conforto di Francia ed Inghilterra, occupò la striscia di Gaza e la penisola del Sinai, minacciando di invadere l’Egitto. Stati Uniti e Unione Sovietica fermarono però l’invasione costringendo Francia ed Inghilterra a ritirarsi. Piovène intuisce una lotta atavica, una tensione tra Oriente e Occidente.
Egli deduce da questo incontro che Islam e Cristianesimo non potrebbero mai contrastare se osservassero il loro credo sempre e fino in fondo. La discussione ad un certo punto viene portata su un piano politico: le differenze vengono rimarcate riflettendo sulla loro natura non tanto religiosa ma soprattutto, politica ed economica. Ciò che elimina il dialogo infatti non è il credo, la fede ma il denaro, gli interessi, le armi, e le guerre. Piovène dunque piuttosto che fare il moderatore della discussione ha esposto le sue riflessioni senza timore.
Venezia è stato il luogo più adatto ad un incontro come questo, in quanto è stato anche un luogo nel quale, di fronte all’Oriente, si è portati a una maggiore umiltà; se una città come Bagdad mostra quello che abbiamo dato all’Oriente in tempi moderni, a Venezia tutto ci parla di quello che l’Oriente ci ha dato in tempi più antichi.
Entrando nello specifico degli interventi da parte degli autorevoli protagonisti dell’incontro, è oppurtuno sottolineare la frase di Carnelutti secondo il quale non solo bisogna conoscersi per amarsi ma bisogna amarsi per conoscersi; solo l’ignoranza genera avversione ma basta conoscersi perché, grazie ad una specie di automatismo dello spirito, ne possa scaturire un’intesa reciproca, i luoghi comuni fanno parte di un idealismo pigro e fatuo.
Senza dubbio è stato Taha Husein, l’uomo che più di tutti ha parlato in maniera diffusa dalla parte islamica, con tono sentenzioso ed insinuante. Egli sostiene che gli occidentali sono stati discepoli degli orientali, poi superatili, ne sono diventati i maestri e insieme gli oppressori; mentre l’Occidente dinamico, razionale, agnostico, materialista e scientifico, ha insegnato agli orientali i metodi di ricerca scientifica, ha svegliato il mondo dell’Islam, gli ha dato coscienza dei suoi diritti, ma nello stesso tempo lo ha oppresso. Incolpevoli gli sicenziati, i veri uomini di pensiero, nessun processo al Cristianesimo, nessuna colpa al popolo. La vera colpa secondo Husein è dei politici, degli industriali, dei banchieri, fautori e autori della colonizzazione.
In effetti se si pensa all’aspetto puramente religioso l’idea di carità cristiana è affine a quella mussulmana di fratellanza e uguaglianza, ma bisogna tener contro che quella mussulmana ha anche un forte accento giuridico e che i mussulmani stessi sono stati dominatori dell’Occidente (basti pensare alla Spagna mussulmana). L’Islamismo rispetto al Cristianesimo è un movimento di ritorno verso la saggezza classica; dalla più ardua qualità dell’insegnamento di Cristo può nascere una duplice conseguenza: un sentimento, un approccio alla vita più tragico e rigido da una parte, e un ascetismo profano, dell’arte e dell’ambizione, dall’altra. Non è un caso che proprio il Cristianesimo è stato chiamato agonistico, per la sua coscienza drammatica del peccato e della colpa, d’altra parte molti cristiani, ritenendo che una vera vita cristiana sia troppo alta per lui, rinunciano a mettere in pratica i principi della loro fede e si affidano alla Grazia di Dio. La Legge che tramanda il Corano ha in sé qualcosa di teologicamente arbitrario, è tale perché voluta da Dio, ma si tratta di un Dio meno legale di quello evangelico e meno affine al pensiero umano. Nel Corano tutte le virtù si riducono ad una, l’obbedienza a scapito del pensiero umano.
Nella civiltà storica derivata dal Cristianesimo l’incarnazione che moltiplica il valore dell’uomo porta ad un’esaltazione delle attività umane; si ha dunque una civiltà ricercatrice, laica, attiva, (attraversata dal Rinascimento e dall’Illuminismo), propensa ad accettare l’errore. Nell’Islam invece nasce una civiltà teocratica, in cui potere religioso e potere civile coincidono. Naturalmente il biasimo dei mussulmani nei confronti degli occidentali è quello di leggere male il Corano, come sostiene anche Husein, il quale però non tocca fino in fondo l’aspetto puramente religioso del contrasto tra Oriente e Occidente. E se questo contrasto in realtà non ci fosse, poiché, come sostiene l’inglese Philby, convertito all’Islam, la civiltà islamica si è occidentalizzata? Dunque anche per Philby, occidentale in crisi, il contrasto tra Oriente e Occidente è solo politico.
Un’osservazione che può costituire la migliore chiave di lettura della discussione di Venezia nel settembre del 1955 è la seguente:
Quando nel 641 il califfo Omar occupò l’Egitto, davanti alla celebre biblioteca di Alessandria fu lapidario: <<O questi libri! Contengono ciò che già c’è nel Corano e allora sono inutili, oppure dicono qualcosa che nel Corano non c’è, e allora sono pericolosi>>.
La biblioteca venne distrutta e Hegel nel ricordare l’episodio nelle Lezioni sulla filosofia della storia, dimostra come il fanatismo consustanziale al mondo islamico può prendere sul piano storico le direzioni più impensate.
Da quel Convegno risultano evidenti il carattere poco saldo e superficiale dell’idea che il mondo islamico riesce a dare di se stesso, la sua rinuncia ad approfondire ciò che sul piano culturale e religioso lo differenzia da quello occidentale, la sua deliberata scelta, come evidenzia Piovène, a porre tutto su un piano puramente politico. Ma nel 1955 erano forse gli avvenimenti del momento ad assecondare la piega politica del dibattito. Il clima internazionale in cui si svolse era certamente meno drammatico e convulso di quello all’indomani dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle di Manhattan, alla metropolitana di Madrid, alla redazione di Charlie Hebdo; L’Islam era considerato un problema geograficamente lontano da noi.
L’autore vicentino è convinto che l’occidente si debba sbarazzare di due idee: quella di grande potenza e di una sua superiorità morale, di civiltà-guida; “Possiamo antivedere”-conclude-“una civiltà nella quale nessuno avrà l’egemonia e in cui tutti appariranno in veste di contribuenti”.