Gabriele D’Annunzio è stato uno degli esponenti del Decadentismo italiano. E’ con Il Piacere – la sua opera più celebre- che si inaugura il nuovo quindicennio letterario decadente, esprimendone la vera essenza: la concezione della vita fondata sull’estetismo e sulla formula “Il verso è tutto”; l’arte è il valore supremo, ad esso devono essere subordinati tutti gli altri valori. La vita si sottrae alle leggi del bene e del male e si sottopone solo alla legge del bello, trasformandosi in un’opera d’arte.
D’Annunzio infatti punta a creare l’immagine di una vita eccezionale: “il vivere inimitabile” di un individuo, che rifiuta la mediocrità borghese, indossando la maschera dell’esteta, conducendo una vita all’insegna di duelli, di lusso ed instancabili ed effimere avventure amorose. A questi attimi di pura sregolatezza, il D’Annunzio- esteta, fa però corrispondere, una copiosa produzione di versi, di opere narrative e di articoli di giornali acquisendo una cospicua notorietà.
Gli anni novanta dell’Ottocento, rappresentano la massima ostentazione del vivere inimitabile: D’Annunzio vive nella sontuosa villa della Capponcina a Firenze, dove conduce un’esistenza all’insegna della raffinatezza più sfrenata, tra oggetti d’arte e stoffe preziose. Lo scrittore dice di sé: “Io sono un animale di lusso il superfluo m’è necessario come il respiro”. Accanto a lui l’attrice di fama internazionale Eleonora Duse, con la quale intraprese una relazione sentimentale, lunga e tormentata. Relazione, come tutte quelle che l’infedele ed egoista poeta ebbe, del resto, basata sull’opportunismo, sul calcolo (la Duse portò in scene e finanziò le opere di D’Annunzio), sul narcisismo e su slanci passionali, piuttosto che su un autentico e disinteressato sentimento.
La fase della “bontà” e l’accostamento al superomismo di Nietzsche
Ben presto D’Annunzio avverte la fragilità della figura dell’esteta che è impotente nei confronti dell’inesorabile dilagare del capitalismo ed dell’industrialismo. Entra quindi in crisi l’estetismo e si approda nella fase della “bontà”: D’Annunzio infatti, disgustato dagli artifici estetici, propone un ritorno alle cose semplici.
In una lettera a Matilde Serao scrive: “Mi pareva che tutte le mie facoltà di scrittore si fossero oscurate, indebolite, disperse”. A determinare questa inettitudine artistica ma soprattutto psicologica del Vate fu certamente un senso di sazietà dell’ossessiva ricerca del piacere ma soprattutto l’accostamento in questi anni ad autori come Tolstoj e Dostoevskij.
Il periodo di inettitudine corrisponde inevitabilmente ad un silenzio artistico, che tace fino agli inizi del ‘900. In questi anni Gabriele D’annunzio si accosta alla filosofia nietzschiana, che imprime un senso vitalistico, ed eroico al suo pensiero. In particolare coglie gli aspetti della volontà di potenza, dell’esaltazione dello spirito, della lotta e dell’affermazione di se, dandogli una veste antiborghese; si scaglia contro la realtà borghese che con il suo spirito affarista e speculativo, contamina il senso della bellezza. D’annunzio aspira all’istituzione di una nuova aristocrazia, capace di dominare le masse comuni ed elevarsi sopra ogni legge morale. Il mito del superuomo rappresenta una reazione alle tendenze in atto in questi anni di emarginazione e di declassazione dell’intellettuale: se l’esteta si isola dalla realtà, il superuomo cerca di dominarla in nome del culto del bello. L’artista- superuomo diventa “vate” con una missione politica, quella di strappare la nazione dalla sua mediocrità.
Il vitalismo psicologico si traduce in vitalismo artistico: tra il 1894 e il 1910 infatti, D’Annunzio pubblica 4 romanzi: Il Trionfo della morte, Le Vergini delle rocce, Il Fuoco e Forse che sì forse che no. In queste produzioni letterarie, emerge però un superomismo problematico: i protagonisti restano deboli e sconfitti, attratti dalla decadenza e dalla morte.
D’Annunzio: le opere drammatiche
A partire delle 1898, con la rappresentazione della tragedia Città morta, D’annunzio si rivolge al Teatro che rappresenta, più dei libri, lo strumento di diffusione del verbo superomistico. Lo scrittore, rifiutando un teatro borghese e realistico che metteva in scena eventi di vita quotidiana, elabora un teatro di poesia, riportando in vita uno spirito tragico che rappresenti personaggi d’eccezione fuori dal comune. Famosi in questo senso sono le tragedie e i drammi dannunziani: La Gloria, La Gioconda, Più che l’amore la tragedia pastorale La figlia di Iorio.
Le Laudi
Molto significative sono Le laudi del cielo del mare della terra e degli eroi pubblicate da D’Annunzio, tra 1903 e il 1912, in sette libri di liriche. Anche qui approda l’ideologia superomistica. Il primo volume, “Maia”, è un lungo poema unitario di ottomila versi, dove emerge uno slancio vitalistico e il desiderio di sperimentare ogni aspetto della realtà, quella moderna e quella industriale. Il testo inaugura il cosiddetto “verso libero”, adottato anche nelle laudi successive. Il poema è una trasfigurazione mitica di un villaggio in Grecia compiuto dallo scrittore.
Il secondo volume “Elettra” è una propaganda politica: si enumerano infatti al suo interno numerose città italiane che conservano un passato di bellezza artistica e grandezza guerriera. Quel passato, dunque, sul quale si dovrà modellare il futuro.
Il terzo libro “Alcyone”, celebra la fusione panica con la natura. Si tratta di una sorta di diario di una vacanza estiva. L’estate consente una pienezza vitalistica, dove l’io del poeta si fonde con il fluire della vita. Il quarto libro “Merope” fu scritto nel 1912. Il Quinto libro fu aggiunto postumo e gli ultimi due non furono mai scritti.
L’esperienza della guerra e il Notturno
I sogni attivistici ed eroici sono relegati soltanto nei libri ma l’occasione di trasformarli in realtà viene offerta dalla Prima guerra mondiale: D’Annunzio allo scoppio della guerra, inizia un’intensa campagna interventista. Si arruola come volontario all’età di 52 anni, compiendo anche imprese rischiose: il volo di Trieste, la “beffa di Buccari” e il volo di Vienna.
Durante un atterraggio nel 1916, D’Annunzio si ferisce ad un occhio, ma non rinuncia però a comporre: scrive le prose del Notturno, pubblicate poi nel 1922, dove lo scrittore si avvicina alla prosa lirica di argomento autobiografico e dal registro stilistico più misurato.
Dopo il conflitto mondiale, D’Annunzio si fa interprete della “vittoria mutilata” che fermentava tra i reduci, con questi, marcia su Fiume scontrandosi con le trattative di pace dello Stato italiano. Nel 1921 è costretto a ritirarsi per l’arrivo dell’esercito italiano, scacciato tenta di riportare ordine nel caos del dopoguerra ma, si ritrova a fare i conti con il più abile politico, Benito Mussolini, il quale se da una parte lo esalta come il padre della patria, dall’altro lo guarda con sospetto relegandolo nella Villa di Gardone, che D’Annunzio trasforma in un museo “Il Vittoriale degli italiani”, dove lo scrittore trascorrerà gli ultimi anni della sua vita e muore nel 1938.
D’Annunzio ha attraversato oltre un cinquantennio di cultura italiana, coniatore di neologismi (tramezzino, folla oceanica, fusoliera), cimentandosi anche nel cinema, nell’attività pubblicitaria (pensiamo alla Rinascente), nella cucina influenzandola a livello letterario ma soprattutto politico, elaborando ideologie ed atteggiamenti, anticipando il ’68, dando vita al fenomeno dannunzianesimo il quale ha segnato il comportamento di intere generazioni borghesi, concedendogli grande fama e stravaganti leggende nel panorama letterario europeo novecentesco e dividendo ancora oggi la critica tra feroci detrattori della sua poetica seducente, sensuale, suggestiva e di esaltazione, priva di risvolti civili e morali, e appassionati ammiratori soprattutto in virtù del carisma e del nazionalismo del Vate.