(Fano, 21 dicembre 1899 – Rio Salso, 8 giugno 1989)
Fabio Tombari nasce a Fano, in Provincia di Pesaro e Urbino, da Riccardo, barbiere, e Augusta Felicetti, casalinga. Richiamato alle armi con la leva del ’99, prende parte alle fasi finali della prima guerra mondiale. Nel 1918 si diploma maestro elementare e inizia ad insegnare nelle scuole elementari di Casepio (Montefeltro). Il suo primo libro, Le cronache di Frusaglia appare nel 1927, pubblicato dalle edizioni della “Lucerna”, ristampato nel 1929 dalla casa editrice Vallecchi, ottenendo il Premio dei Dieci, che conferisce all’autore grande popolarità. Passato alla casa editrice Arnoldo Mondadori Editore, Tombari pubblica La vita (1930), Le fiabe per amanti (1932), Il libro degli animali (1935), I ghiottoni (1939). Nel 1944 lascia l’insegnamento per diventare uno dei pochi narratori italiani che vive della propria scrittura. Nel 1955 esce Il libro di Tonino con cui lo scrittore si aggiudica il Premio Collodi e il Soroptimist nel 1956. Frusaglia resta senza dubbio la sua opera principale e più nota; alla quale Tombari lavorerà continuamente.
C’è nel romanzo La vita di Fabio Tombari una tipologia di sapiente paesano, un “ignorante illuminato”, detto Biagino che funge da mentore al protagonista in varie occasioni. Ad un certo punto gli dice: “Insisti, insisti, per il tuo diavolo. Ho letto il tuo manoscritto: è una vendetta. Peggio di questo si muore: pare che tu ce l’abbia con la letteratura. Bravo, scrivi per dispetto: periodi senza senso, parole buttate là a casaccio in cerca d’un vocabolario, volgarità molta. Sei un brigante. Insisti: pensare forte e scriver corto”. Ha tutta l’aria di un programma antiletterario ma in sostanza non c’è nulla di più letterario e la prova la fornisce Tombari stesso attraverso il suo stile.
La vita narra la vicenda di un ragazzo di paese, manesco, con atteggiamenti da boss del quartiere, ma dal cuore non cattivo. Allevato dalla strada, si innamora di qualche ragazze, si burla dei compaesani, ruba polli, provoca qualche rissa fino a farsi cacciare di casa per una frase troppo ardita detta ad un reverendo, in presenza di suo padre che non tarda a raccoglierlo in casa. Dopo un po’ il ragazzotto si imbarca su un bragozzo, gira per il mare, vede nuovi paesi ed approda infine ad Ancona; con alcuni compagni visita un bordello, ma la terra di Frusaglia lo riprende, tanto più che c’è l’amore di Maruzza: vive facendo il vagabondo dando guai ai propri genitori. Ad un tratto si mette a scrivere, molla la ragazza, si reca a Milano e finisce stanco e storidito in un dancing, accarezzato una notte da una prostituta. Dopo una disavventura finisce in carcere, ricasca in paese mentre viene pubblicato con un certo successo il suo manoscritto. Il nostro protagonista quindi va a Roma, città dipinta con pennellate rapide ed indeterminate da Tombari che si concentra abbastanza sull’aspetto mondano. Il ragazzo torna in Frusaglia dove stanno facendo il funerale alla sua ex fidanzata morta di tisi, egli piange, ricorre ad un medico-spiritista del paese, pare voglia iniziare a credere in Dio, ma una notte sta per uccidersi, quando il fantasma di Maruzza gli appare e lo salva. Il romanzo termina con l’immagine pallida del ragazzo che si vede allo specchio.
Come per Tutta Frusaglia, anche per La vita, Tombari adotta uno stile lirico per la sua esile materia, concentrandosi più che sulla trama, sull’individuazione di tipi e figure staccate da ogni complesso di relazioni morali. Tuttavia vi si riscontra una certa freschezza, gusto per il pittoresco, la capacità di descrivere con brevi tratti, come se realizzasse dei bozzetti, riproducendo la genuinità e la semplicità della vita di campagna. Ma Tombari è stato davvero un romanziere? Dopo avere letto La vita che ha come protagonista un personaggio fisso, non evoluto dalla vita e avvolto da un alone di patetica spavalderia, nonostate abbia sofferto, viene da rispondere negativamente. Anche la fidanzata Maruzza è statica, di lei si sa solo che è innamorata, questo è il suo stato d’animo ma non ha volontà, si esala in un soffio, senza aver imparato nulla dalla vita. Anche la madre del ragazzo è teneramente inerme. Eppure il titolo promette altro, un flusso di vita che dovrebbe attraversare i personaggi e invece i tratti del protagonista vengono dati sempre con immagini esterne: “E venivo su, bello, matto e forte come un querciolo fronzuto di verdi speranze, […] brado, bislacco, strillozzo, pezzente, imparavo a star fuori di casa, a pescar galline col chicco di granoturco all’amo, a difendermi in rissa, a baciar l’uva nei campi, a mirare di sera la triste solitudine dell’inverno”. Tombari fissa il carattere del personaggio senza però risolverlo.
Bibliografia: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento, V.III.