50 anni fa, nel luglio del 1968 scompariva lo scrittore Guareschi che, con i suoi romanzi, ha provato a fermare l’inesorabile incedere del tempo, delineando in tal modo un vivido quadro dell’Italia post-bellica. La campagna, il mondo rurale, luogo della sua infanzia, dei suoi ricordi fa da sfondo alle vicende del sindaco Peppone e del parroco suo rivale Don Camillo. Come Pasolini in Scritti Corsari, denuncerà con profondo rammarico, la guerra silenziosa mossa ai piccoli centri rurali profetizzandone l’estinzione. L’Italia contadina trova in Guareschi la massima esaltazione; egli conscio del profondo mutamento in atto, non ha altro mezzo se non la scrittura per mostrare ed eternizzare un mondo che, pur subendo il fascino e la forza prepotente della città, trova la fora per mantenere intatta la sua identità.
Quando per la prima volta il mondo si accorse di Giovannino Guareschi, si apprestava all’orizzonte il tramonto di un’era segnata dal sangue e della violenza e l’alba di una nuova, dai tratti più miti per quanto incerta apparisse, carica di fragili promesse di speranza e di pace. Gli animi, sgravati dal peso sciabordante della guerra, della fame e della paura, erano pronti a riconciliarsi con la civiltà perduta, che nel tetro labirinto della storia appariva sempre più come una lontana e transeunte meteora. La mente del popolo italiano attanagliata da tristi ricordi, languiva tra la povertà e la miseria, tra sorrisi amari e certezze devastate, e fu chiamata nonostante tutto a fare l’ultimo passo per il benessere e la salvaguardia del proprio paese. Si facevano spazio nelle loro coscienze, tra le macerie spirituali e sociali che il grande conflitto aveva lasciato, ideali di rinnovamento e venti di cambiamento che stormivano fra le antiche fronde del loro tragico passato.
L’Italia del dopoguerra è una nazione d’immagini d’effetto, di tensioni politiche, di lotte intestine, di divisioni sociali e religiose. Si assiste al passaggio di fase involontario da una consapevolezza tirannica ad un’altra, più decisiva per certi versi, che intaccò con minor o maggior intensità tutti i campi della vita quotidiana. Guareschi incarna questa transizione culturale più di molti altri suoi contemporanei. Figlio della bassa emiliana, il giovane scrittore con molta probabilità ereditò il gusto delle belle lettere dalla madre, maestra elementare nel piccolo paesino di Fontanelle, dove vivevano lui insieme ai suoi numerosi fratelli, coltivando al tempo stesso un amore legittimo per la vita campestre e il mondo agricolo. Già da fanciullo manifesta la sua indole polemista e riottosa, in concomitanza con il desiderio di sapere e di raccontare la miseria e le storture del suo tempo:
Io da giovane facevo il cronista in un giornale e andavo in giro tutto il giorno in bicicletta per trovare dei fatti da raccontare.[…] Nel mio vocabolario, avrò sì e no duecento parole e sono le stesse che usavo per raccontare l’avventura del vecchio travolto da un ciclista o di una massaia che, sbucciando le patate ci rimetteva il polpastrello.
Guareschi appartiene indubbiamente a quello che viene definito realismo fantastico, figlio del surrealismo e in stretta connessione con l’irrazionalismo novecentesco. Forse tale accezione indurrebbe a fraintendimenti se l’autore stesso non avesse escogitato un modo per eluderlo declinando la realtà fatalista di fondo che pervade i suoi scritti in una visione ironica e burlesca. L’autore della bassa, riversa i suoi giochi di parole, il suo disagio spirituale e il suo languore metafisico nell’arte del creare, dello stupire, nell’abbattere le sicurezze, le credenze e i luoghi comuni di Belpaese. Scrittore, giornalista, umorista, vignettista e caricaturista, abbracciò tutti i rami che l’arte del suo tempo potesse concedere. Dotato di una spiccata predilezione per lo scherzo e per la satira mordace, costituivano questi i dardi infuocati da scagliare contro a tutti coloro credeva meritevoli di tale trattamento. Il punto di svolta di Giovannino fu senza dubbio nel ’36, anno in cui riuscì a conquistarsi la grande Milano collaborando attivamene all’appena nato Bertoldo, giornale umoristico che Zavattini, conoscenza del periodo universitario a Parma, dirigeva e Angelo Rizzoli editò, dopo incertezze e litigi. Ma anche gli anni del Bertoldo passarono, la grande guerra infuriava e non risparmiò nulla, portando con sé morte e tribolazione inaudita. Dopo essersi arruolato, dopo lotte esangui e notti insonni, dopo il rifiuto di giuramento di fedeltà all’ex alleato tedesco, finisce in un campo di concentramento, prima in Polonia, poi in Germania dove resterà fino al 1945. Questa esperienza devastante sarà humus vitale per il Canto di Natale e il più intimista Diario Clandestino, allo stesso modo delle celebri Memorie di una Casa Morta di Dostoevskij, con l’unica variante che il primo fu scritto esattamente durante il periodo di prigionia nel lager.
A noi è concesso soltanto sognare. Sognare è la necessità più urgente perché la nostra vita è al di là del reticolato, e oltre il reticolato ci può portare solamente il sogno. Bisogna sognare: aggrapparsi alla realtà coi nostri sogni, per non dimenticarci d’esser vivi. Di queste inutili giornate fatte di grammi, di cicche o di miseria, la sola parte attiva, la sola parte vitale saranno i nostri sogni. Bisogna sognare: e, nel sogno, ritroveremo valori che avevamo dimenticato, scopriremo valori ignorati, ravviseremo gli errori del nostro passato e la fisionomia del nostro avvenire. Sediamoci fuori della baracca: proiettiamo le visioni del nostro desiderio sullo schermo del cielo libero e sogniamo (gli occhi bene aperti e la mente vigile) costruendo noi stessi la trama della vicenda immaginaria, soggettisti, registi, attori, operatori e spettatori del nostro sogno.
L’ira attonita dell’uomo qualunque, che impotente è vessato e offeso, temprato dalla conoscenza diretta col dolore, troverà la realizzazione concreta nel giornale satirico da lui ideato e diretto Candido, , dove la satira espressa tramite vignette umoristiche, assume un aspetto più sagace.
Ma è con la sbalorditiva saga del Mondo Piccolo, che Guareschi afferma la sua magistrale caratura letteraria. Ritratto sbiadito di una vita campestre, di un futuro colmo di disincanto e amarezza. Protagonista della storia è la bassa padana. Uno stralcio di terra che corre da Pavia a Mantova, da Bologna a Ferrara, attraversata dal Po. Squarci di terreno inondato da acque fresche e rugiada vespertina, antichi pioppi che gettano un’ombra lungo il cortile di vecchi casotti abbandonati alla decadenza mordace del tempo, stradine non lastricate che solcano immensi campi di margherite, di grano e di campanule che si perdono all’orizzonte e riempiono il cuore di una pace e una grazia ineffabile, sono testimoni di piccole e insignificanti storie comuni. Storie di uomini e donne, santi e dannati, impavidi e pusillanimi. Gente comune, gente che vive, una vita semplice e placida. Le storie di Guareschi sono il riflesso di questo mondo. Piccolo, antico, puro, incontaminato. Al riparo dalla violenza distruttrice dell’uomo moderno e dalla perversa insaziabilità del suo estro e del suo capriccio. Questo è lo scenario del mondo di Don Camillo e Peppone, uno scenario semplice che tuttavia, per Guareschi rappresenta la parabola esistenziale della sua narrazione. Una narrazione sostanzialmente ancipite, che vede contrapporsi in antagonismo l’eterno binomio parroco-sindaco durante tutte le brevi storie che compongono il ciclo. Ma un altro personaggio, volto a formare una trinità pragmatica coi primi due, è il Cristo vivente dell’altar maggiore, a cui è affidato il compito di aiutante critico, in una dimensione di riflessione e testimonianza interiore.
La sfiducia nell’uomo si tramuta in una fede cieca in Dio, il suo Dio, che è un po’ la voce dell’umana coscienza. Se in una prima analisi la piccola comédie humaine messa in piedi dallo scrittore si risolve su un piano caricaturale e ironico, dall’altro quando in gioco entrano valori universalmente validi e interessi collettivi, ecco che le due fazioni diametralmente opposte, convergono subitaneamente senza esclusioni di sorta. Quando subentrano principi come la capacità d’amare, il bene per la collettività, il rispetto e la salvaguardia dei deboli, ecco che lotte cessano e si prosegue, seppure lungo strade diverse alla medesima destinazione. L’opera possiede un carattere se non apologetico, tutt’al più moralistico, ma di quel tipo di morale invisibile poiché mascherata da uno spesso strato di verecondia. Guareschi si serve del primo per mostrare le miserie di un nazionalismo in rovina e dell’altro per mostrare gli effetti dell’incipiente insediamento politico. Non salva l’uno condannando l’altro come la critica letteraria ha a volte affermato, né l’opposto, ma sferza entrambi con la frusta dell’ironia e lo sguardo vigile e accesso del sarcasmo. Eppure liquidare l’opera di Guareschi come lo scontro perenne fra il burbero Don Camillo e il prepotente Peppone, fra Destra e Sinistra, sarebbe irrispettoso e ingiusto per un’opera del genere. Il contributo di Guareschi alla narrativa italiana si estende in direzioni molto più ampie. L’autore sposa l’idea dei contrasti, dei chiaroscuri, da manifestare visibilmente in ogni riga, in ogni parola. Come detto in precedenza, sul piano iconico-visivo, tramite l’elaborazione certosina di una paesaggistica quasi vivente, gli abitanti e quel mondo artificiale di cui fanno parte, si compenetrano a vicenda in un gioco di forza che tiene in equilibrio la struttura narrativa.
La bassa padana, da sfondo decorativo diviene epicentro delle vicende umane, incarna ossia, quel mondo piccolo che Guareschi conosce assai bene, che sente fin dentro le ossa e che consapevolmente descrive: un mondo con le sue leggi, con un suo ordine naturale, con una sua gerarchia sociale. E adesso vede il sovvertimento di questi dettami, vede violata l’intimità pacifica di questo mondo gentile da ciò che viene definita come modernità. Nel noto romanzo di Kafka, Il Processo, assistiamo ad una situazione analoga. Nella scena iniziale, due tirapiedi mandati dal tribunale irrompono una mattina, senza preavviso, nella camera del signor K. dichiarandogli la propria colpevolezza, minacciandolo mentre è ancora allettato e divorando finanche la sua colazione. La stanza in questo caso è emblematica di una dimensione intimista e privata in cui un’altra, estranea, fa breccia con irruenza dispotica neutralizzando ogni possibile difesa. Come Kafka, anche lo scrittore della bassa, sacrifica l’introspezione psicologica, per un’assoluta centralità dei gesti e delle azioni come indicatori degli stati d’animo e delle qualità delle relazione individuali. Ciò che Guareschi contesta, su cui polemizza è l’intromissione violenta nel suo piccolo mondo di quella forza infausta e demonizzante, che esplicita nel socialismo in particolare, e in generale con tutto ciò che possa negare o minare le fondamenta culturali della sua terra nativa. Espressione massima anche nel rapporto conflittuale tra metropoli e campagna, tra un’apparente conciliazione del moderno vivere con la tradizione popolare. Un rinsaldamento declinato nell’accettazione aprioristica dello sviluppo come un bene imprescindibile. Guareschi non rinuncia alla modernità, tuttavia la guarda con occhio critico e severo, percependone le tristi derive verso cui può condurre. Le delusioni sono state troppe, troppi i danni subiti. Il celebre filosofo tedesco Georg Simmel una volta scrisse:
Nella metropoli da una parte la vita viene resa estremamente facile, poiché le si offrono da ogni parte stimoli, interessi, modi di riempire il tempo e la coscienza, che la prendono quasi in una corrente dove i movimenti autonomi del nuoto non sembrano neppure più necessari. Dall’altra, però, la vita è costituita sempre più di questi contenuti e rappresentazioni impersonali, che tendono a eliminare le colorazioni e le idiosincrasie più intimamente singolari; così l’elemento più personale, per salvarsi, deve dar prova di una singolarità e una particolarità estreme; deve esagerare per farsi sentire, anche da se stesso.
Sono queste rappresentazioni impersonali, come Simmel le definisce, a spaventare Guareschi e a farlo stare in uno stato di perenne apprensione sul progresso che incombe voracemente sul suo mondo. Questo suo disincanto, non solo politico, ma anche sociale, economico e religioso, questa sua ilarità, quasi tragica per certi aspetti, si traducono in una presa di coscienza di sé e del suo compito in qualità di uomo, prima che di scrittore. Il popolo del mondo piccolo, concepito in una sfera d’azione essenziale e minimalista, richiede un linguaggio adeguato. Ponendosi dei vincoli espressivi, elaborando una grammatica elementare, una sintassi scarna e un lessico ristretto raggiunge un traguardo in termini di diffusione e comunicazione. Una prosa povera, asciutta, ma dotata di una grande eleganza espressiva. La ricompensa per un registro stilistico popolare, è sicuramente la diretta compartecipazione e attenzione mondiale, e non deve stupire quindi la lunga pluriennale fedeltà di un pubblico che nelle sue storie ha trovato, e trova tuttora, sempre qualcosa o qualcuno in cui riconoscersi o ritrovarsi.
Guareschi con la sua semplicità conquista ogni nazione, perché arriva direttamente alla gente, senza tanti giri di parole o frasi artificiose, ma con la spontaneità colloquiale di un compagno di cella. La semplicità di fondo, di questo autore, così come quella di molti altri, come Calvino o Tabucchi per citarne alcuni, non è istintiva, ma nasconde in realtà una complessità ideologica, di cui si apprezza l’originalità solo dopo una seconda lettura ed una profonda analisi. Dietro un resoconto quasi da cronista, c’è una ricerca spasmodica della più ampia comunicabilità possibile. Fra i capisaldi della poetica guareschiana v’è senza dubbio un’aspirazione di rivincita sociale. L’autore si rende conto che le posizioni politiche stanno perdendo consistenza, che non ha alcuno senso stare da una parte piuttosto che da un’altra. La sua è una intuizione anticipatrice, sintomatica di una capacità di analisi della società fuori dall’ordinario. Eppure, guardando le distese sconfinate della bassa padana, è in quei luoghi che la sua voce riemerge con forza. Lì il tempo sembra essersi fermato, le leggi fisiche che regolano l’universo sono in quella porzione di spazio inerme senza alcun valore, né podestà. Le impressioni che posti e paesaggi del genere suscitano nell’ignaro spettatore difficilmente si conciliano con ciò che il pensiero della globalizzazione ci ha abituato a credere. I ritmi sono lenti, le parole sospirate, gli amori come le stagioni passano senza destare timori. E in quell’istante, la natura si rivela, si riversa nel suo tacito clamore. Qui il miracolo più sorprendente, qui il prodigio più estasiante. Come William Shakespeare scrisse molto tempo fa:
Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.