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John Steinbeck, realista immaginativo con la passione per i diseredati e reietti

Nato a Salinas, in California, il 27 febbraio 1902, John Ernest Steinbeck (Salinas, 27 febbraio 1902 – New York, 20 dicembre 1968), frequenta la Salinas High School. Durante questo periodo, l’autore dimostra le sue qualità di scrittore collaborando con il giornale della scuola. Subito dopo il diploma, si iscrive all’università di Standford, per frequentarvi i corsi di biologia, ma la lascia nel 1925 senza aver dato esami. Comincia, quindi, ad esercitare i mestieri più umili, avvicinandosi in tal modo a quel mondo costituito da reietti ed emarginati, che rappresenterà l’elemento fondante di tutta la sua produzione letteraria futura.

Nel 1926, dopo aver tentato la carriera giornalistica, torna in California e si stabilì a Pacific Grove. La vita di Steinbeck presso tale luogo, coincide con l’inizio di un periodo fortemente creativo, destinato a condurre lo scrittore al successo. Nel 1932, molti anni prima della pubblicazione del suo indiscusso capolavoro, Furore, in cui è preponderante una rappresentazione epica del contrasto fra la potenza dei ricchi e l’avvilimento dei poveri, egli pubblica un’antologia di racconti, I pascoli del cielo, ambientati in una comunità agricola di una valle californiana. L’interesse dell’autore per la campagna e l’umile gente che vi abita e per le problematiche ad essa legate, si palesa in questo romanzo e in particolar modo in quello successivo: Al Dio sconosciuto (1933).

I pascoli del cielo rappresenta certamente un grande affresco sulla natura degli uomini, ma al contempo manifesta la scelta di Steinbeck di incentrare tutta la sua poetica verso la biologia delle faccende umane. I personaggi descritti in quest’opera restano sospesi in una sorta di visione scientifica, tesa a raffigurare le loro reazioni istintive innanzi all’incedere degli eventi. Una scrittura delineata da forti contrasti: la serena bellezza della valle si contrappone alle drammatiche vicende che agitano questo piccolo mondo. D’altra parte l’ideologia alla base della narrativa di Steinbeck si basa su due elementi che si alternano costantemente, senza mai elidersi: una vena umoristica, e un realismo aspro, socialmente risentito, che culminerà nella descrizione della lotta senza quartiere in Furore.

La sincera simpatia del romanziere per i diseredati e gli oppressi non sfocia mai  in una ritratto violento delle relazioni tra gli individui,  caratteristica comune di quasi tutti gli autori americani a colorazione proletaria. Egli prova compassione per le sofferenze degli emarginati, comprende e perdona gli errori da essi commessi, ma lo fa dall’alto di un sereno distacco. L’affetto non è riservato all’uomo in quanto tale, bensì all’animale uomo, e la percezione dell’indifferenza non è dovuta ad un senso di superiorità, piuttosto ad una concezione della lotta tra classi sociali dominata da istinti primitivi. Il limite, e al tempo stesso la forza, dell’orizzonte interiore di Steinbeck risiede nel riuscire a svuotare i suoi personaggi, la resa degli stessi è inafferrabile in antitesi con la descrizione di un paesaggio dai contorni ben delineati.

Steinbeck è uno scrittore potente, in grado di scandagliare l’animo umano, i pensieri degli uomini, e contemporaneamente compiere un’analisi lucida della realtà storica. Egli non eleva mai i protagonisti ad eroi, nonostante usi un tono epico, i quali vengono descritti in qualsiasi loro comportamento, nella loro disperazione e nella loro forza, rendendoli più veri e vicini al lettore.

Le storie della maestra Molly, del saggio Whiteside, di Tularecito, un giovane estromesso dalla società per le sue stranezze,  testimoniano tutta la restrizione dell’universo in cui vive lo scrittore americano, che sostanzialmente si riduce alla regione intorno a Monterey, in California. Non si riesce a comprendere quanto tale “regionalismo” sia una reale necessità, un limite alle possibilità dello scrittore, o sia in parte voluto, al fine di servire da specchio per i lettori, in modo che gli stessi possano guardare da lontano e senza timore, la ristrettezza mentale e il rifiuto per il diverso alla base di ogni società che si autoproclama “civilizzata”.

Pian della Tortilla (1935) è il primo romanzo di successo dello scrittore, che tratta in modo comico e surreale la vita di un gruppo di paisanos.

Con Uomini e topi (1937) Steinbeck realizza un piccolo capolavoro (solo 100 pagine) in cui riesce a toccare molte tematiche senza annoiare o risultare confusionario, ma facendo respirare al lettore il clima e l’atmosfera di quell’epoca: la miseria dei braccianti negli anni post 1929 e la loro voglia di libertà ed emancipazione, il sogno americano, la discriminazione razziale verso i neri, la follia umana, la segregazione femminile tra le mura domestiche.

La valle dell’Eden (1952) è il romanzo in cui Steinbeck ha creato i suoi personaggi più affascinanti, esplorando più a fondo i suoi temi ricorrenti: il mistero dell’identità, l’ineffabilità dell’amore e le conseguenze tragiche della mancanza d’affetto.

La narrativa di Steinbeck perde vigore negli ultimi anni della sua vita che coincidono con la legittimazione dell’intervento americano in Vietnam ed il rozzo patriottismo: lo scrittore non riesce più ad emozionare e commuovere, si perde in storie esili e narrazioni troppo semplicistiche, come se lo scrittore avesse fretta di terminare il proprio romanzo. Nel 1962 gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: “Per le sue scritture realistiche ed immaginative, unendo l’umore sensibile e la percezione sociale acuta”.

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