(Roma, 28 novembre 1907 – Roma, 26 settembre 1990)
Alberto Moravia è considerato, insieme alla sua consorte Elsa Morante, unita a lui non solo dal sentimento, bensì dall’amore per la scrittura, uno dei migliori, più intensi scrittori che l’Italia abbia mai avuto l’onore di conoscere. Un uomo che cresce in un ambiente famigliare piuttosto difficile; a tal fine sembra doveroso richiamarsi agli anni giovanili, quelli -prima dell’artefice de Gli indifferenti- in cui il bambino Moravia nasce e cresce, nel quale maturano ferite che rimarranno nascoste ma svelate, ben presto, in quelli che potremmo definire i romanzi della borghesia.
Alberto Pincherle Moravia nasce nel 1907 in una benestante famiglia dell’alta borghesia di intellettuali: il padre è architetto e pittore. Fin dai primissimi anni dell’infanzia Alberto inizia la sua battaglia contro la tubercolosi ossea, una malattia che stigmatizza in maniera irreparabile i giorni della spensieratezza e lo costringe allo studio autodidattico, a causa delle cure alle quali deve essere sottoposto, e ai lunghi soggiorni salutari in alta montagna. Nonostante ciò, Alberto va avanti e studia in totale autonomia, come un novello leopardiano. Non possono non restare incisi come l’immagine di un’incudine su ferro -nella sua personalità di scrittore- l’isolamento, la solitudine ed infine la necessità, quasi, di far proprio uno sguardo straniato sull’esistenza e sugli altri uomini. Proprio per questo egli sarà così abile, forse, nella costruzione di personaggi estraniati, trasognati e a tratti inumani: vittime di una sorta di parossismo sentimentale, innamorati di se stessi ed egoisti.
La fortuna di Moravia inizia con il romanzo d’esordio Gli indifferenti (1929): scritto tra il 1925 ed il 1928, divide critica e pubblico. C’è chi lo ama, definendolo un capolavoro, chi invece rigetta ogni virtù in esso rinvenuta. Una cosa è certa: tutto questo discutere, interrogarsi, indignarsi, in un periodo storico nel quale il genere del romanzo era in evidente stato di catatonia, esiliato ai margini del negletto, tutto questo parlare di Alberto Moravia significa accettare che egli è perlomeno riuscito a rovistare negli armadi di tutti, cogliendo non solo scheletri bensì cadaveri viventi. Quel silenzio di protezione di cui la borghesia si era premurata di coprire se stessa con attenzione e monomania, quel soprabito di pelliccia era stato sostituito da una maglia fatta di pezze ricucite. E male, anche.
Gli indifferenti racconta la storia di una famiglia borghese, come tutti i romanzi moraviani: quella di un nucleo familiare in cui vige la regola della menzogna, la virtù dell’egoismo, in cui ognuno è solo soprattutto in presenza degli altri. La borghesia è denudata in tutte le sue falsità ed inganni: l’immoralità, il perbenismo, l’ambizione sfrenata, e, non meno importante: l’ipocrisia. All’interno di una bella casa borghese, in cui tutto sembrerebbe perfetto, vivono personaggi robotizzati dall’abitudine condividere le giornate senza affetto o trasporto reciproco, senza compassione; è un microcosmo chiuso, asfittico e claustrofobico dal quale il protagonista Michele cerca di estraniarsi, allontanarsi. Ma il suo problema non è l’assenza di una coscienza, in lui vivida e vera, è l’incapacità di uscire dal giogo delle maschere. L’impossibilità di acquisire la padronanza delle proprie azioni, di agire e liberarsi definitivamente dal circuito familiare.
Le tematiche che Moravia predilige e che resteranno gli assi portanti della sua narrativa sono l’idolatria smodata per sesso e denaro. Invincibili e indomabili feticci, sono loro i veri padroni della casa di Michele. L’impostazione del romanzo è tipicamente ottocentesca, naturalistica dunque, con il tempo invece lo scrittore maturerà un approccio più ponderato ed intellettualistico alle vicende. Questo grazie ai suoi studi personali e alle influenze culturali: la filosofia esistenzialista, il marxismo e la psicanalisi freudiana. Nonostante Moravia sia un uomo di sinistra, mai si definirà come un intellettuale: sfrutta il marxismo solo come canale privilegiato di potenziamento ed arricchimento culturale, e per affinare il suo gusto critico. Nel 1935 esce il romanzo poco conosciuto, così come sarà poco amato, Le ambizioni sbagliate. Il mancato credito attribuito all’opera è probabilmente dovuto alla macchinosità della costruzione narrativa, tra il giallo ed il noir, che si richiama al modello del grande Dostoievskij.
L’impostazione moraviana dei romanzi resterà quasi sempre di tipo realistico, ottocentesco anche nei racconti come quelli delle raccolte: La bella vita (1935), L’imbroglio, quest’ultima datata 1937. Altra perla letteraria è il racconto lungo dal titolo Agostino, pubblicato nel 1945, il quale ci presenta la storia di un tredicenne di buona famiglia che, durante una vacanza al mare, scopre l’esistenza del sesso e delle disuguaglianze sociali. Si tratta di un’esperienza traumatica, ai limiti del perturbante, che rivela ad Agostino il suo ingresso nel mondo adulto. Il protagonista tutto un tratto di troverà di fronte alla scelta: stare dalla parte dell’infanzia dorata o rinnegare tutto il passato. Non si riconosce più nell’innocente bambino che era fino a poco prima, e inizia a frequentare un gruppo di proletari ai quali si lega di una profonda amicizia. Proprio tale legame indurrà in lui dei dubbi spaventosi circa l’identità borghese, e tutto quanto ad essa legato. Non è infatti “uno di loro”, un proletario e sente fastidio nei confronti della propria famiglia, dell’universo di cui tuttavia continua a far parte. Assume un atteggiamento di distacco critico, alla ricerca di una dimensione neutra, aliena da tale doloroso binarismo (borghesia-proletariato, ricchi-poveri).
Ma non era un uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse.
Questo pensa Agostino, ed il romanzo si chiude con un inevitabile quesito: Potrà mai esserci un’integrazione pacifica tra adulti e bambini? Infanzia e maturità? Sogni e realtà? Impossibile dare una risposta, e l’autore non la fornisce. Superata questa fase narrativa (che comprende anche La disubbidienza, 1948), Moravia si trova colto dal vento populista provocato dal Neorealismo, e sforna così alcune opere come La romana, e La ciociara. In questo momento emerge lo scrittore che da voce all’umiltà popolana e gretta. Un interesse per gli umili che però si dimostra più strumentale che reale. La borghesia è solo per poco posta in secondo piano, per contrapporsi alla genuinità dei rozzi contadini. Non a caso, un borghese indignato è Michele (come Michele de Gli indifferenti) mentre esempio di semplicità è il personaggio Cesira. Dopo questa parentesi dedicata alla dicotomia tra proletari e borghesi, Moravia torna a dedicare tutta la sua attenzione ai secondi, evidenziandone le deformità. Questo accade ne La noia, romanzo del 1960 e successo indiscutibile. Lo scrittore qui dimostra continuità con il lontano precedente Gli indifferenti, riportando alla luce la non dimenticata coscienza dell’immoralità borghese e del suo instancabile monito di denunciarne le nefandezze, le crepe interiori.
A chiudere il cerchio degli inetti è Dino: pittore che non riesce più a dipingere, perché non ha la forza di stabilire più dei rapporti autentici e concreti con gli esseri umani, con le cose, con la vita. La tela resta vuota e il nuovo Michele tramuta l’indifferenza sterile di entusiasmi in una noia, un’incapacità di essere, di scegliere.
di Donatella Conte