(Palermo, 14 luglio 1916 – Roma, 7 ottobre 1991)
Natalia Ginzburg nasce a Palermo, il 14 Luglio del 1916 da una famiglia ebrea. Dopo aver trascorso il periodo della sua giovinezza a Torino, a soli 17 anni pubblica i suoi primi lavori sulla rivista fiorentina Solaria, uscendo così dallo quello stato di emarginazione in cui era vissuta per tutta la sua infanzia. Nel 1938 sposa Leone Ginzburg, professore di letteratura russa ed esponente dell’antifascismo clandestino. Vissuta con lui ed i figli in Abruzzo, al confino di polizia per antifascismo. Dopo aver tradotto Proust, nel 1942 pubblica il suo primo romanzo La strada che va in città, servendosi di uno pseudonimo per questioni di carattere razziale, rinunciando così alla sua identità. Da sempre vicina ai temi dell’antifascismo, sarà segnata profondamente dalla morte del marito avvenuta nel ’43, dopo atroci torture, a Regina Coeli, a Roma, dove si era trasferita poco dopo la caduta del fascismo. Negli anni del dopoguerra, il suo lavoro come redattrice della casa editrice Einaudi a Torino, di cui era stata fondatrice, risulterà fondamentale per la sua formazione di donna, perché la Ginzburg era una donna dalla personalità controversa ma sempre attenta ai cambiamenti vissuti sulla propria pelle e a quelli di cui si faceva interprete la stessa società in cui si trovava immersa. Un donna sicuramente non convenzionale, senza abbellimenti, moglie e madre ma, prima di ogni altra cosa, sempre in prima linea in fatto di lotte e diritti, lei che desiderava “scrivere come un uomo”.
Frutto di riflessioni più mature, sarà, pochi anni dopo la morte del marito, il suo romanzo breve E’stato così; anche se il suo lavoro più ambizioso resta Tutti i nostri ieri, scritto durante il suo matrimonio con Gabriele Baldini, quando si trasferisce nuovamente a Roma. Questo è anche uno dei suoi periodi più produttivi. La Ginzburg infatti è stata una scrittrice in grado di tenere il passo, capace di immedesimarsi nella vita di tutti i giorni, attraverso una minuziosa analisi psicologica collettiva, pur senza sentirsi affatto una psicologa. Una donna con una sua tristezza, legata agli ovvi motivi che noi tutti conosciamo ed una donna, senza dubbio, forte anche se, a volte, imperscrutabile. Ma cos’era, in fondo, per lei, il femminismo? Essere donna significava denunciare la drammaticità del ruolo femminile svincolandosi, però, da ogni differenza di genere. Posizione che per molti appariva forse anomala. Voleva scrivere e basta, senza essere né donna né uomo, stringere un patto esclusivo con la scrittura.
Una scrittura, quella della Ginzburg, che è una voce libera e fuori campo, con uno stile, invece, lineare e comprensibile che spiega e racconta l’impossibilità di salvarsi dai tormenti che affliggono l’uomo, costantemente inseguito dai fantasmi del passato e dal pensiero ossessivo della morte. Con lei potremmo dire che l’elegia si trasforma in tragedia e non lascia più spazio alle pause e alle tregue, un continuum del lamento che sempre accompagna i suoi personaggi e le vicende in cui sono implicati. Su questo sentimento corrosivo e malinconico nasce anche Lessico familiare, nel 1963, con cui vince il Premio Strega. Pensato come un “album di famiglia” in cui viene convogliato ognuno di questi suoi lamenti, qui Leone Ginzburg viene celebrato attraverso un suo ritratto appeso nell’ufficio di Giulio Einaudi e Natalia mostra il suo esplicito rifiuto verso le forme sterili dell’autobiografia ed i memoriali, dato che spesso se ne abusava. Nei suoi ultimi anni si dedica al teatro, ricordiamo infatti Ti ho sposato per allegria, collabora con il Corriere della Sera e si occupa definitivamente di politica, tant’è vero che viene eletta alla Camera dei Deputati, con il Partito Comunista Italiano, prima nel 1983 e poi nel 1987. Risale al 1984 la sua ultima opera La città e la casa. Una coerente scelta di vita la sua, fino alla fine. Muore a Roma il 7 Ottobre del 1991, da attivista, lasciandoci il ricordo incommensurabile di una delle più grandi scrittrici del Novecento.
Le poche sterili parole della nostra epoca vengono strappate dolorosamente al silenzio. Abbiamo cominciato a tacere da ragazzi, a tavola, di fronte ai nostri genitori. Noi stavamo zitti per protesta e per sdegno. Eravamo ricchi del nostro silenzio. Adesso ne siamo vergognosi e disperati e ne conosciamo tutta la miseria, ma il silenzio può essere universale e profondo. Il silenzio può raggiungere una forma di infelicità chiusa, mostruosa, avvizzire i giorni della giovinezza, fare amaro il pane. Può portare alla morte. Perché il silenzio è un peccato, un peccato comune a tanti nostri simili nella nostra epoca, è il frutto amaro della nostra epoca malsana. (N. Ginzburg)