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Simone Weil

Simone Weil, tra i più grandi filosofi del Novecento, fuori da un qualsivoglia sistema entro cui ripararsi, rigorosa cercatrice di Verità anche a scapito della Vita

Filosofa, sindacalista, insegnante, operaia, rivoluzionaria, soldato, idealista, anarchica, mistica, ebrea, cattolica, Simone Weil era tutto questo e molto altro ancora, e la sua vita, più delle sue opere, testimonia di una personalità sempre coerente, esplosiva, anticonformista. Nasce a Parigi nel febbraio del 1909 da una ricca famiglia ebrea. Un’anima sensibile quella della Weil, che a soli quattordici anni affronta una prima crisi esistenziale accompagnata da forti emicranie. Superata la crisi ai tempi del liceo, diviene allieva di La Senne e Alain – quest’ultimo rimase un esempio per l’attivismo politico – ottiene la laurea in filosofia nel 1931 all’Ecole Normale Superieure. E’ a questo punto che comincia la carriera vera e propria della Weil divenuta, subito dopo la “licence”, insegnante di filosofia nelle piccole città di provincia di quella Francia ancora scossa dalla guerra. Ad una vita di soli studi ed insegnamento, Simone Weil accosta con vocazione sempre più intensa la sua passione per il mondo sindacalista, rivoluzionario e anarchico, con una dose di ispirazione marxista.

Simone Weil: tra filosofia, mistica e politica

Ma di Marx, la giovane filosofa – radicata ad un’idea più mistica e spirituale – pur accettando la critica al capitalismo e allo sfruttamento della classe proletaria, non condivide il materialismo storico e il determinismo, la concezione di progresso, quella “necessarietà” ineludibile delle cose che fonda l’analisi marxista. Così, dopo un primo periodo di vicinanza con le lotte sindacali (la Weil arriverà a sconvolgere l’opinione pubblica di Le Puy distribuendo volantini di sciopero assieme ai movimenti operai), pur senza iscriversi a nessun partito, Simone abbandona l’insegnamento per dedicarsi pienamente all’esperienza della vita proletaria e nel 1934, per otto mesi lavora come manovale nelle officine Renault. L’alienazione del lavoratore, la monotonia, la frustrazione, lo sfruttamento del salariato inteso come “schiavitù pagata”, sono temi di cui l’esperienza diretta influenza la filosofa con grande intensità.

Lo sperimentare diventa perciò il mezzo principale per comprendere e migliorare un sistema sociale che non guarda negli occhi i più deboli. La volontà di stare dalla parte degli oppressi la porta in Spagna nel 1936, durante la guerra civile, dove si aggrega con i repubblicani che ritiene, nel mezzo del conflitto, la fazione dei “giusti”. Nel caos della guerra comprende, tuttavia, come nella violenza la giustizia tende inevitabilmente a sparire, ed è così che, ferita, torna in patria, attraversando prima l’Italia. Ad Assisi, nella cappella di Santa Maria degli Angeli, Simone Weil ha la sua prima esperienza mistica che la porta a stretto contatto con il Cristianesimo. La potenza esemplare della vita semplice ed umile di San Francesco danno un senso immediato alle sue esperienze. Le sue origini ebraiche, già da tempo rimesse in causa per l’impossibilità di concepire un Dio “degli eserciti”, “delle schiere di Israele”, un Dio che elegge un popolo a discapito di un altro, vengono così sorpassate dalla figura di Cristo, del Dio fatto uomo per l’uomo stesso, un Dio caritatevole e misericordioso che si incarna nel figlio inteso come bene puro, puro amore. La conversione della Weil però, non si ebbe che sul letto di morte, e la sua adesione al Cristianesimo fu sempre seguita da un netto distacco dalla Chiesa istituzionale, che alla religiosità mistica, spirituale e sacra, secondo lei, preferiva i dogmi. Solo sul letto di morte, prima dell’ultimo respiro, alla giovane età di 34 anni la Weil si convertì pienamente dopo essersi trasferita negli Stati Uniti per sfuggire alla minaccia nazista.

Simone Weil quindi, durante tutto l’arco di una vita senza simboli o partiti, è l’espressione dell’emancipazione della donna attraverso una riflessione femminile e in nessun caso femminista (la Weil addirittura si sentiva votata alla verginità, alla purezza: «Il concetto di purezza, con tutto ciò che la parola può implicare per un cristiano, si è impadronito di me a sedici anni, dopo che avevo attraversato, per qualche mese, le inquietudini sentimentali proprie dell’adolescenza. Tale concetto mi è apparso mentre contemplavo un paesaggio alpino e a poco a poco si è imposto a me in maniera irresistibile.). E’ la manifestazione di un pensiero libero che difende la causa dei più deboli a prescindere dal sesso. La sua opera si condensa tutta nella sua vita, in un evoluzione dialettica tra pensiero e azione, dove l’attaccamento alla mistica dell’evasione dall’immaginario collettivo del “noi”, o quello individuale dell’”Io”, può recuperare una concezione di abbandono – verso il prossimo – e disinteresse nell’impersonale, tanto da recuperare i valori del giusto, del bello, del buono e del vero.

“In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa.”

Comunista senza partito e cristiana fuori dalla Chiesa

Simone Weil è oggi celebrata con spettacoli teatrali, articoli di circostanza, elogi e commemorazioni, ma nessuno indaga a fondo il suo pensiero, il suo nome è sventolato in modo frequente ma superficiale; di lei si conosce l’etnia ebraica e si ricorda la grandiosa coerenza che la spinse a vivere di stenti tra gli operai, rinunciando alle cure che a loro erano precluse, e che alla fine la condusse alla morte; ma poco si sa e si scrive del suo pensiero, della sua opera e della sua stoica solitudine e della sua insofferenza rispetto ad ogni forma più o meno coercitiva di aggregazione, setta o partito (si definì infatti “comunista senza partito” e più tardi “cristiana fuori dalla Chiesa”).

La Weil vive una notorietà di facciata che cela un sostanziale oblio, è un’autrice che con le parole di Hegel potremmo definire “nota ma non conosciuta”, un po’ lo stesso destino che spetta a Pasolini. Se ci riflettiamo, però, è inevitabile: la nostra società oggi non può digerire nulla di Simone Weil.

Il suo pensiero attraversa il Novecento in tutte le sue declinazioni e contraddizioni, smuove le nostre coscienze intorpidite e scardina le certezze ed i pregiudizi più diffusi. Basta sfogliare alcune pagine de La Prima Radice -il suo testo fondamentale- per rimanere sbigottiti di fronte alla profondità dei pensieri, la coerenza delle posizioni, l’efficacia della scrittura, la quantità quasi inesauribile di spunti. L’opera è incentrata sul bisogno di radicamento che per la Weil è il più importante e misconosciuto dell’anima umana, e tra i più difficili da definire. Si è detto che ad esso non corrisponde un bisogno dialetticamente contrario. Il fatto è che il radicamento costituisce il terreno di coltura indispensabile per la soddisfazione degli altri bisogni, cosicché ad essi si oppone non un bisogno correlativo ma la sua negazione, la ‘malattia dello sradicamento’.
La Weil demolisce ad uno ad uno tutti i totem della modernità, che sono poi sopravvissuti e si sono imposti come orizzonte ineluttabile nella post-modernità. Nulla sfugge alla prosa impetuosa della pensatrice allieva di Alain: critica il pacifismo (“il pacifismo può essere dannoso solo perché fa confusione tra due sentimenti di ripugnanza. La ripugnanza ad uccidere e quella a morire. La prima onorevole, ma debolissima; la seconda, quasi inconfessabile, molto forte”), il laicismo militante, che incaponendosi contro la religione senza fanatismo apre le porte ad un fanatismo senza religione (“le tendenze idolatre del totalitarismo possono trovare un ostacolo soltanto in una vita spirituale autentica. Se si abituano i ragazzi a non pensare a Dio, essi diventeranno fascisti o comunisti per il bisogno di darsi a qualcosa”), la cultura accademica, autoreferenziale e avvitata su se stessa (“oggi i professori universitari insegnano a studenti per formare professori che a loro volta insegneranno a studenti per formare altri professori”).

La polemica contro lo scientismo e la considerazione di Hitler

Ma ciò che colpisce di quest’opera è l’ultima grandiosa polemica, quella contro lo scientismo, di cui fa parte la frase citata in apertura di articolo. Qui il pensiero della Weil giganteggia tra quelli del suo secolo, elimina dalla questione della scienza moderna la coltre di fumo che di solito la circonda e la fronteggia senza timori. Il discorso della filosofa è lineare ed implacabile: la scienza moderna ha corrotto l’ideale di scienza così come questa era intesa in età classica. Infatti, ai tempi dei greci la scienza perseguiva, in modo parallelo e non concorrenziale alla filosofia e all’arte, il Bene, che secondo la Weil è il principio che regola il mondo, l’Intelligenza, la Relazione, il Logos, la Giustizia, l’Amore. Tuttavia, con la “seconda parte del Rinascimento” e, più tardi, con la rivoluzione scientifica, avviene a suo giudizio un cambio di paradigma, sottaciuto ma nefasto: la scienza perde di vista il principio regolatore del cosmo, lo stupore aristotelico per l’armonia del mondo, la consapevolezza inebriante della sua sensatezza; ed incomincia ad intendere l’universo come una risultante di forze, contrapposte in modo frontale ed antagonistico. Se “gli antichi erano stati inebriati dall’idea che ogni forza della natura soggiacesse non già ad una forza più forte: ma all’amore”, la scienza moderna ribalta questo discorso: il mondo non è originato da un Senso a cui ogni cosa dolcemente obbedisce, ma è risultato casuale ed accidentale di forze che si affrontano.

La scienza, che fino in età classica perseguiva, come ogni disciplina umana, il Bene, in epoca moderna si pensa “al di fuori del bene e del male; specialmente al di fuori del bene”. Così la Chiesa e la filosofia, cioè la tradizione umanistica occidentale che pensa un mondo regolato dalla giustizia, la stessa giustizia a cui l’uomo anela, sono come marginalizzate, insolentite e via via estromesse di ogni prerogativa dalla scienza moderna, che predica un mondo regolato solo dalla forza.

Ma, osserva la Weil, allora è falso pensare che la scienza sia neutra: essa infatti suggerisce un ragionamento, malcelato ma invadente: se il cosmo è regolato da forze affrancate da ogni giustizia, perché non dovrebbe esserlo anche la società umana? Ed ecco che Simone Weil dice la verità che la modernità non sa dire né affrontare: ecco che mostra il macabro filo rosso che lega la scienza moderna e la politica della potenza, la morte della morale, perfino i totalitarismi.

Cita così la Weil dal Main Kanf di Adolf Hitler: «(l’uomo, nda) sentirà allora che in un mondo dove i pianeti ed i soli seguono traiettorie circolari, dove le lune girano attorno ai pianeti, dove la forza regna ovunque ed è la sola dominatrice della debolezza, costringendola a servire docilmente o a spezzarsi, l’uomo non può richiamarsi a leggi speciali». Ecco qui il ragionamento hitleriano: se nel cosmo, come mostra la scienza, non esiste giustizia ma solo forza, perché dovrebbe sussistere giustizia tra gli uomini? Perché l’uomo e la società dovrebbero fare eccezione nell’universo? Si vede qui espressa con grandiosa chiarezza la parentela misconosciuta tra scienza moderna e nazismo (ed oggi col turbo-capitalismo); la Weil mostra senza veli “la contraddizione”, prima di allora “avvertita solo confusamente”, tra “scienza e umanesimo”, tra trionfo incondizionato della forza ed aspirazione alla giustizia.

Oggi le cose da allora non sono migliorate, semmai sono peggiorate, hanno raggiunto livelli che la Weil non poteva neanche immaginare: la scienza ha acquisito una egemonia totale sulla conoscenza, ed oggi con l’ausilio della tecnica vuole mutare la vita ed il mondo, la società ed il senso comune; la politica si consegna alla scienza e diventa bio-politica.

Simone Weil non considerava Hitler più pazzo dei suoi contemporanei: fu solo più coerente (dice addirittura “coraggioso, di quella particolare specie di coraggio di cui Hitler era capace”), poiché fu il solo a portare il discorso della scienza alle sue estreme conseguenze, a percorrere la strada che la scienza indicava ma non seguiva. Gli scienziati, che predicavano un mondo senza giustizia, in cui trionfasse la forza, ma che poi restavano comodi nella loro società piccolo-borghese, che si accontentavano della loro piccola morale dopo aver stroncato sul nascere ogni anelito alla morale autentica, non erano migliori di Hitler, erano solo più ipocriti. Oggi quest’ipocrisia continua, e continuerà finché avremo la pretesa di fondare una società giusta accettando la menzogna di un cosmo ingiusto, di dare un senso alla vita accettando la superstizione dell’insensatezza dell’universo.

Finché non avremo il coraggio di affermare, con Simone Weil, che se l’uomo tende alla giustizia è già questa la prova indiscutibile che una Giustizia che lo precede, lo trascende e lo sovrasta esiste. Perché “se la giustizia è incancellabile nel cuore dell’uomo, vuol dire che essa ha, in questo mondo, una sua realtà. Allora la scienza ha torto”.

Un pensiero coerente e compatto che disturba diversi intellettuali e accademici

Simone Weil, come ha giustamente notato il critico Berardinelli, non ha confezionato trattati sistematici usufruendo di fondi di ricerca, e per questo dai filosofi di professione, abituati a rimasticare qualunque autore, spesso senza ragioni sufficienti, viene ritenuta a torto un pensatore non sistematico, teoreticamente inadeguato perché frammentario. Niente di meno vero. Simone Weil non ha costruito sistemi, edifici concettuali dentro cui ripararsi. La sua produzione è occasionale, profondamente motivata dagli eventi della sua vita e da quelli politici degli anni in cui è vissuta (il ventennio fra le due guerre mondiali). Ma i suoi articoli e saggi, i suoi diari e aforismi configurano un pensiero straordinariamente coeso e coerente, originale (parola a lei non gradita) nella sua cartesiana lucidità e in una eroica onestà esistenziale. La Weil non si sa come prenderla forse perché non rimanda alle culture dominanti nel Novecento o le respinge, tenendo insieme, non per moderatismo, ma per radicalismo, politica e religione, etica e gnoseologia: e quindi, soprattutto, non viene letta, esige molto dal lettore e disturba in particolare gli intellettuali e la loro categoria oggi prevalente, quella degli universitari.

Per la Weil, che ha raggiunto Dio mediante l’amore (quasi ossessivo) per la verità e non mediante la religione, quindi ispirazione religiosa, psicologia, politica e filosofia sono inseparabili. Amica e confidente di Padre Joseph-Marie Perrin, destinatario delle sue lettere, “Simone Weil ha convertito molti non cattolici, ha deconvertito molti cattolici” come ebbe ad affermare un teologo per testimoniare quale rivoluzionario valore abbia assunto, nel Novecento, un pensiero che si dipana in una piccola costellazione di “libri duri e puri come diamanti, dal lento ritmo incantatorio, dal francese sublime” (secondo le parole di Cristina Campo). Una costellazione al centro della quale si colloca Attesa di Dio, raccolta di scritti – composti fra l’autunno del 1941 e la primavera del 1942 – apparsa postuma nel 1949 per le cure di Joseph-Marie Perrin.

Simone Weil denunciò la scomparsa simultanea dell’ideale e del reale nel nichilismo, la perdita del senso concreto e del soprannaturale come malattia dell’Europa. Che coincide con la perdita del passato: «la perdita del passato è proprio la caduta nella servitù coloniale». Il passato è il deposito di tutti i tesori spirituali, «la perdita del passato equivale alla perdita del soprannaturale». Nel colonialismo inflitto ai popoli extraeuropei la Weil legge il destino del colonialismo afflitto di cui sarà vittima l’Europa. E il passato, una volta perso, «non lo si ritrova più». L’uomo con i propri sforzi costruisce parzialmente il suo avvenire, ma non può fabbricarsi il passato, può solo conservarlo. Privando i popoli della loro tradizione e di conseguenza della loro anima, scrive Simone Weil, la colonizzazione li riduce allo stato di materia umana. Le nazionalità in Europa, notava, saranno presto insidiate dalla frammentazione, dai localismi, dalle patrie regionali. La nazione si troverà schiacciata tra «scale molto più piccole e scale molto più grandi»: alludendo al locale e al globale che verranno.

Intuì l’Europa unita come luogo di riconoscimento delle identità diverse e delle tradizioni. L’Europa, per lei, è una specie di media proporzionale tra l’America e l’Oriente, anzi il perno. Noi europei ci troviamo nel mezzo, siamo letteralmente mediterranei. Solo l’equilibrio annulla la forza. Proiettate questi pensieri nel presente, nell’Europa che rifugge la propria identità e il proprio passato, che non riesce a comprendersi come luogo d’incontro tra Oriente e Occidente e non riesce a capire che la sua centralità, la sua regalità, è nella sua mediterraneità. Quell’intuizione metafisica è pure intuizione geopolitica e strategica. Maledetta apparve ai compagni rivoluzionari, quando preferiva Trotzkij all’ortodossia socialista e sindacalista (ma Simone era a sua volta criticata da Trotzkij); quando denunciava l’irrigidimento dogmatico e violento del comunismo, quando amava la verità sopra il partito e l’umanità sopra le leggi del progresso e della storia. Molesta si rivelò per i repubblicani anarco-marxisti quando li raggiunse in Spagna e cagionò più guai che sostegno ai combattenti. Simone giudicò con orrore i suoi stessi compagni antifascisti per le loro violenze gratuite contro preti e fascisti, anche innocenti. Non furono pochi, del resto, i repubblicani che andarono in Spagna per combattere contro il fascismo ma tornarono inorriditi dal comunismo: capitò anche a George Orwell che poi lo scrisse in Omaggio alla Catalogna e tra gli italiani a Randolfo Pacciardi, che tornò anticomunista. C’è un passo splendido che racconta la purezza dell’impegno rivoluzionario di Simone e la sua sete di martirio: «Mi sdraio supina, guardo le foglie, il cielo azzurro. Giornata bellissima. Se mi prendono, mi uccidono… Ma è giusto. I nostri hanno versato abbastanza sangue. Sono moralmente complice». Simone caricava su di sé le colpe della sua parte ed era pronta a scontarle sulla propria vita.

Simone Weil e gli Ebrei: giudizi al vetriolo

Al vetriolo sono stati i giudizi della Weil (ebrea) sugli Ebrei e sullo sradicamento che avrebbero prodotto nel mondo facendo impallidire le vaghe e paludate allusioni a cui è stato «impiccato» Martin Heidegger. Ne Il fardello dell’identità, troviamo giudizi tremendi. «La maledizione d’Israele – scrive – pesa sulla cristianità. Le atrocità, gli stermini di eretici e infedeli, era Israele. Il capitalismo, era Israele (e lo è ancora, in una certa misura). Il totalitarismo è Israele». E altrove precisa: «Gli ebrei, questo manipolo di sradicati, hanno causato lo sradicamento di tutto il globo terrestre… attraverso la menzogna del progresso. E l’Europa sradicata ha sradicato il resto del mondo con la conquista coloniale. Il capitalismo, il totalitarismo fanno parte di questa progressione nello sradicamento; gli antisemiti naturalmente propagano l’influenza giudaica. Gli ebrei sono il veleno dello sradicamento».

Secondo Simone Weil la mostruosità della religione ebraica fu la pretesa di coniugare divinità e potenza. Mentre in Cristo come in Dioniso, in Osiride come in Zeus, c’è la passione, nel Dio ebraico c’è l’ebbrezza della potenza. «Difficile immaginare un Jahvè supplicante». Da qui la tesi che la storia d’Israele sia storia di massacri e ferocia, la storia di un’idolatria che ha il proprio esito «nell’idea detestabile del popolo eletto». In realtà, arriva a scrivere la Weil, Israele è il popolo eletto soltanto in quanto scelto da Dio per la nascita e la crocifissione di Gesù: «un popolo eletto per essere il carnefice del Cristo».
Simone paragona Mosè a Maurras, il leader della destra francese, perché ambedue concepiscono la religione «come semplice strumento della grandezza patriottica». La Weil vede nell’ebraismo una miscela di fanatismo e di ateismo («un ebreo ateo è più ateo di tutti gli altri»), di religione come volontà di potenza, d’irreligione e culto del denaro. Simone Weil tiene a precisare che «niente certamente ho ereditato dalla religione ebraica» e aggiunge che «se c’è una tradizione religiosa che considero mio patrimonio, questa è senz’altro la tradizione cattolica. La tradizione cristiana, francese, ellenica, questa è la mia; la tradizione ebraica mi è estranea». Giudizi estremi ma d’altronde lei stessa era estrema ed intransigente, né si risparmiava nulla.

Nel 1978 uno scrittore ebreo, Paul Giniewski, scrisse un durissimo pamphlet contro la Weil, accusandola d’ignoranza, odio e malevolenza verso gli ebrei. Arrivò a sostenere che la Weil si mostra indifferente al genocidio del popolo ebraico e per cancellarlo propone una forma di assimilazione, anzi di «arianizzazione». L’obiettivo polemico è il già citato suo testo L’enracinement, curato da Camus, che in Italia pubblicò l’ebreo Olivetti con la curatela dell’ebreo Franco Fortini e col titolo La prima radice, dove Simone Weil difende la centralità delle radici e del dovere, dell’onore e dell’amor patrio, della fedeltà e della tradizione. Ma s’intravede in qualche suo passo quella polemica antigiudaica poi esplicitata in altri scritti, qui pubblicati, e in alcuni passi dei suoi Quaderni. C’è in Simone Weil il rigore assoluto della purezza e l’intransigenza di una cristallina aderenza alla Verità. Ma, come ogni purezza in nome della Verità Assoluta, c’è in lei un forte irrealismo che la spinge a pensare una specie di violenza metafisica nel nome del Bene. La vita è trascurabile cosa rispetto alla Verità, pare voler dire.

C’è però da dire che Simone Weil, morta nel ’43, non seppe la verità atroce dei lager né dei gulag. E non fu mai indulgente verso il nazismo. E poi di quell’assoluta purezza la prima martire fu lei stessa, che sacrificò la vita al rigore del suo amore sovrumano, che rischiò di tradursi in disumano. La Weil patì il risvolto atroce di una santità intransigente e di una bontà spietata verso di sé.

Georges Bataille, che non amava il pensiero di Simone, riconosceva però che pochissime persone gli avevano suscitato interesse come lei. «La sua innegabile bruttezza faceva spavento», ma nascondeva «una bellezza autentica». «Riusciva seducente per un’autorevolezza dolcissima, e molto semplice; era certamente un essere ammirevole, asessuato, con qualcosa di nefasto. Nera sempre, neri i vestiti, i capelli come ali di corvo, la carnagione bruna. Era senza dubbio molto buona, ma nutrita da un pessimismo impavido e un coraggio estremo attratto dall’impossibile, aveva ben poco umorismo». In fondo, nota Bataille, si inflisse la morte per eccesso di rigore e per la sua «asprezza geniale». Chissà se di quelle pagine scabrose, del resto già note in frammenti dispersi, mai raccolte tutte insieme, si preferirà ignorare l’esistenza per continuare l’esercizio d’ammirazione verso Simone Weil o se ne scaturirà via via una serpeggiante emarginazione. Simone Weil nel suo amore assoluto e spavaldo per la verità non ne sarebbe scalfita, tantomeno intimorita. Anzi probabilmente lei voleva “sembrare” in quel modo perché sentiva di esserlo.

 

Fonti: L’intellettuale dissidente, http://www.ilgiornale.it/news/cultura/simone-weil-bruttina-non-stagionata.html, Marcello Veneziani

 

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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