Il 20 marzo arriva in tutte le librerie il romanzo Figlio di papà, dello scrittore e drammaturgo croato Dino Pešut, tradotto in italiano da Sara Latorre, edito da Bottega Errante.
Figlio di papà racconta di un trentenne originario di una cittadina di provincia che, dopo il tentativo fallito di stabilirsi a Berlino, trascorre le sue giornate lavorando come receptionist in un hotel di Zagabria, in bilico tra la propria disperazione, un ricco amante, una cartellina piena di poesie inedite e la malattia del padre.
È il rapporto tra padre e figlio, da sempre ambivalente e minato dal passato che incombe su di loro, a rappresentare la chiave di volta dell’esistenza del giovane. Senza compromessi, con capitoli brevi e potenti, pieni di emozioni profonde alternate a sesso e morte, paura e gioia, Pešut dimostra di essere una voce originale che interpreta perfettamente il tempo in cui vive e la generazione di chi è nato negli anni Novanta.
Figlio di papà descrive in modo brutalmente onesto la condizione di un’intera generazione, quella tra i 25 e i 35 anni, di cui si parla poco. Per Sara Latorre, traduttrice del libro, è un romanzo capace di «toccare corde profondissime, facendoci soffrire e ridere nel giro di una frase. Credo che i lettori abbiano bisogno di storie contemporanee e normali, con personaggi reali che affrontano le loro stesse fatiche familiari, relazionali, professionali. Per me è stato subito chiaro che Figlio di papà sarebbe potuto diventare davvero il romanzo di un’intera generazione».
Come spiega Sara Latorre, la generazione raccontata da Dino Pesut è una delle «più istruite dell’ultimo secolo, ma quella con meno prospettive di crescita sociale. Facciamo fatica a fare progetti per il futuro perché non abbiamo una stabilità economica e, oltre a ciò, siamo quasi del tutto privi di stabilità emotiva. Siamo tutti ansiosi, tutti in terapia, tutti ghostati e ghostatori, tutti su Tinder, tutti a fare brunch, quasi tutti ancora a casa dei genitori, tutti nel pallone.
Il pubblico Millennial e Gen Z dovrebbe leggere Figlio di papà perché è un libro che parla di loro, in cui è impossibile non immedesimarsi, una lettura che ci permette sia di crogiolarci nelle nostre angosce che di prendere coraggio per affrontarle. Il pubblico più adulto, invece, dovrebbe leggerlo per capire un po’ meglio i propri figli e nipoti, la cui situazione è spesso trascurata e sminuita sia negli ambienti familiari che dalle istituzioni».
Dino Pešut è uno dei nuovi scrittori croati e, come tale, racchiude in sé diverse identità: è un Millennial, un uomo gay, un giovane intellettuale, un abitante di uno dei Paesi dell’area ex jugoslava e sicuramente molto altro.
«Quando nell’estate 2021 spulciavo il blog femminista croato Vox Feminae» ci racconta sempre la traduttrice Sara Latorre «mi sono imbattuta in un articolo di Marija Dejanović che analizzava e condannava le dichiarazioni omofobe rilasciate dal giornalista e critico Igor Mandić riguardo al libro Figlio di papà di Dino Pešut. Ho pensato che un libro capace di innervosire a tal punto l’intelligencija croata dovesse essere interessante. Come omosessuale dichiarato Pešut parla della e alla comunità queer di uno dei Paesi meno aperti e più reazionari d’Europa (e la Croazia in questo è simile all’Italia), creando uno spazio di rappresentazione e rappresentanza».
Inoltre, aggiunge Sara Latorre «da giovane intellettuale proveniente dalla provincia, Pešut è capace di raccontare la frustrazione di chi trova nell’arte la propria vocazione, ma fatica a farne un mestiere per mancanza di opportunità ed è costretto a reprimersi per almeno 8 ore al giorno. Essendo un trentenne croato, infine, è una delle persone che ha vissuto la guerra degli anni Novanta da bambino e i successivi sviluppi politici da ragazzino. A tal proposito, è importante sottolineare che, se decide di parlare della guerra, il suo punto di vista sarà in un certo senso parziale, mentre se decide di parlare della società postbellica lo fa con uno sguardo scevro da jugonostalgia, lucido e rivolto al futuro.
Ciò fa sì che Pešut riesca a dire cose nuove in modo nuovo anche su fatti già largamente indagati, mentre dall’altro costringe l’editoria e i lettori ad accettare che lui e i suoi colleghi possano scegliere di non parlare dei soliti temi caldi riguardanti i Balcani, costringendoci a fare i conti con il fatto che la letteratura balcanica è una letteratura come le altre e perciò si evolve nelle forme e nei contenuti, indipendente da ciò che pretendiamo da essa».
La lingua di Figlio di papà è diretta ed estramamente curata perché, continua Latorre, «Pešut è prima di tutto un drammaturgo, perciò è molto abile nello scrivere dialoghi estremamente naturali e la sua prosa non ha bisogno di grandi arzigogoli per risultare efficace. La sfida maggiore per me è stata restituire in italiano proprio la spontaneità dei dialoghi e soprattutto la voce creata dall’autore per ogni singolo personaggio, cercando per ognuno una modalità di espressione che fosse al contempo riconoscibile e non macchiettistica.