L’uomo che parlava alle vigne è un libro di Pierpaolo Palladino edito dalla casa editrice La Mongolfiera, in cui storia, natura ed elementi magici si intersecano per raccontare le vicende della famiglia Lulic, al confine con la Slovenia. Sono tre le generazioni protagoniste del romanzo: Jozef, il figlio Gaspere e il nipote Pavel.
Ma il vero elemento di narrazione di tutto il libro resta il vino, filo conduttore e guida all’interno del testo. Il racconto inizia durante la Prima Guerra Mondiale e termina negli anni ’80; l’autore ripercorre diversi momenti storici salienti di questi anni, senza tralasciare le avversità del periodo, sottolineando aspetti ancora tristemente attuali come la discriminazione, l’oppressione delle minoranze, la violenza dei conflitti, il liberismo imperante. La storia è così scandagliata e descritta dai soggetti che la subiscono e, annaspando nel mare di tumulti storici e di vita vissuta, cercano di sopravvivere non tradendo sé stessi.
I Lulic si sentiranno ostracizzati e quasi distaccati dalla loro stessa comunità, estranei nella loro stessa terra: condizione che spesso si è verificata su persone di origine balcanica. Un altro personaggio importante è Padre Italo, la cui condizione di esilio in Sud America e l’ emarginazione attuata dalla sua stessa chiesa ricordano la figura di Don Milani. La minuziosità in cui l’autore presenta il contesto storico è intervallato da elementi di realismo magico che rimandano ad autori come Gabriel García Márquez, sottilmente a Jorge Luis Borges ma anche agli italiani Italo Calvino, Dino Buzzati e al contemporaneo Stefano Benni. Ma l’elemento-collante e centrale dell’opera è il rapporto con la natura e, in particolar modo, il legame viscerale con la terra e i suoi frutti: il barlume di speranza emblema di un filo dorato che, nonostante le vicissitudini, terrà salde tre generazioni.
L’uomo che parlava alle vigne: ‘’l’oblio degli affanni’’
Ciò che accomuna le tre generazioni dei Lulic è la ricerca instancabile di una formula che mira alla produzione di un vino perfetto. Una motivazione così forte che li porterà a fare delle scoperte sulla loro progenie, a effettuare le prime ricerche scientifiche di genetica vegetale ma anche a conoscere e imparare tecniche di coltivazione e conservazione del vino. Un viaggio, quindi, anche nella parte più tecnica dei metodi di vinificazione; il vino si trasforma nella sua accezione più pura convertendosi in elemento magico: l’unica ragione che porta la famiglia Lulic a non soccombere. Per parafrasare Alceo, antico poeta greco e cantore della bevanda, il vino è come un amico incapace di tradimento ed è definito, dallo stesso poeta, ”l’oblio degli affanni”.
La correlazione simbolica data a questo nettare derivante dall’uva riprende, in parte, il messaggio che il testo veicola: nell’antica Grecia era infatti considerato un dono che la natura offriva agli uomini e che andava a sottolineare il legame di quest’ultimi con la Terra attraverso la metamorfosi di un frutto che si trasforma in un prezioso liquido magico. La famiglia Lulic tratta le sue viti proprio come doni: parlando, cantando, sussurrando a queste elargizioni della terra.
L’insegnamento più importante de L’uomo che parlava alle vigne, tuttavia, rimane l’accoglimento delle altre realtà da parte dei Lulic: nonostante l’ostracismo subito, si confrontano con altre culture accogliendo l’altro e facendone tesoro, un’evidenza che si percepisce anche nell’apprendimento delle tecniche nel vino. Un atteggiamento che rivela, ancora una volta, la struttura di una famiglia coriacea ma dalla lucida fantasticheria: che non si è data per vinta e nelle radici del passato ha seminato il proprio percorso futuro.