Il canto XV del Purgatorio di Dante è un’eccezione. Si tratta di un canto di passaggio, dove la consueta narrazione si ferma per far posto a una parentesi meditativa. Il primo elemento incontrato è la luce, messa in rilievo, come spesso avviene nell’opera, da una precisazione astronomica. La luce attraversa l’intero canto, tiene assieme gli altri temi solo all’apparenza irrelati; e in questo frangente è sia quella del sole sia quella dell’angelo che indica l’uscita dal girone. Il lettore si confronterà con tre vicende: quella di Maria, che anziché rimproverare il figlio smarritosi nel tempio si rivolge dolcemente a lui mettendo a nudo il suo patimento; quella di Pisistrato che, malgrado l’avversione della moglie, perdona il ragazzo reo di aver baciato sua figlia; la sequenza culmina infine con Stefano – il martire che, lapidato, perdonerà i suoi carnefici.[1]
Anche la vita di Ilaria Palomba raccontata in Purgatorio è un passaggio: dalla morte alla vita. Dal buio alla luce. Ma non si tratta di una vera e propria resurrezione. Di sicuro non è stato un percorso facile. Iniziato con lunghi mesi di degenza ospedaliera durante i quali a farla da padrone è stato il dolore, provato fin dal primo risveglio in ospedale, nel «ventre del Leviatano», uno «spazio liscio tra terra e cielo, un Purgatorio».
La vicenda narrata da Alighieri dello smarrimento di Gesù ragazzo a Gerusalemme e della reazione dolce di Maria, propria della poetica e del linguaggio del Purgatorio dantesco, ricorda molto la relazione che Ilaria ha con sua madre, l’atteggiamento di quest’ultima la quale, in netta contrapposizione al comportamento del marito, è molto accondiscendente con la figlia, nonostante la sua riottosità e scontrosità. Anche se è con il padre che Ilaria ha lo scontro maggiore perché questi proprio non riesce a comprendere le ragioni delle sue azioni.
Nella società contemporanea stiamo assistendo, tra l’altro, a un ritorno in grande stile di un atteggiamento di stampo neo-romantico, caratterizzato principalmente da una sempre più diffusa rivalutazione degli aspetti affettivo-emotivi come valore fondamentale per l’essere umano.[2]
L’individuo delle “tribù” contemporanee è un enfant eternel, un bambino completamente assorbito in un suo universo affettivo-emotivo. Usciti definitivamente dalla cultura “eroica” giudaico-cristiana che ha caratterizzato la modernità, basata sulla concezione di un individuo attivo e padrone di sé e dell’ambiente circostante, si sarebbe entrati nell’universo del “vitalismo” delle tribù postmoderne, fondato non più sulla pianificazione e sulla realizzazione di determinati progetti ma prevalentemente orientato a lasciar godere del piacere di stare insieme, di condividere l’intensità del momento, di prendere il mondo per quello che è.[3]
Quello che stiamo vivendo oggi sembra dunque un processo di slittamento da un individuo dotato di un’identità stabile che esercita le sue funzioni sulla base di rapporti contrattuali ben definiti, a una persona fornita di molteplici possibili identificazioni, in grado di ricoprire indifferentemente svariati ruoli all’interno di “tribù affettivo-emotive”.[4]
Sulle spalle dell’individuo occidentale incombeva, circa un secolo fa, una patologia psichica definita clinicamente nevrosi. Oggi incombe la depressione. Se la nevrosi va considerata un “dramma della colpa”, la depressione è una “tragedia dell’insufficienza”. La conquista della definitiva emancipazione dell’individuo finalmente sovrano, il diritto di scegliere, il dovere di diventare se stessi, senza poter fare appello ad alcun ordine esterno, avrebbe imposto un pesante tributo, rappresentato appunto in una forma alternativa di dipendenza: la dipendenza da se stessi.[5]
Le peculiarità socio-psicologiche che caratterizzano l’attuale fase del processo di individualizzazione, sarebbero legate fondamentalmente alla paralisi dettata da una sorta di terrore: quello che l’uomo contemporaneo ha di scoprire in se stesso i motivi della sua dipendenza, la sua fragilità, la sua inevitabile mortalità, in breve tutto ciò che gli ricorda la sgradevole verità dei suoi limiti. Egli soffre della “malattia di non saper soffrire”.[6]
Per Ilaria il reincanto è l’amore, lo cerca senza neanche rendersi conto di farlo, lo rifiuta con la stessa intensità, inconsciamente, perché le forze lesioniste e distruttive hanno sempre o quasi la meglio. Anche l’amore per lei è dolore. Un dolore che spesso si trasforma in rabbia o in ossessione.
«Essere ossessionati è vivere il pensiero come un doppio mostruoso, farselo scivolare dentro senza nessuna forma di erotismo. È uno stupro. Io non volevo sognare, ogni volta sognavo qualcuno che mi assediava, erano le persone che avrei ucciso se non avessi deciso di uccidere me. Il suicidio è un omicidio mancato».
In tutto il mondo, quasi 800.000 persone si suicidano ogni anno. Le evidenze suggeriscono che per ogni persona che muore suicida, vi sono molte più persone che tentano il suicidio. Circa l’85-95% delle morti per suicidio si verificano in persone con una malattia mentale diagnosticabile al momento del decesso. Il disturbo più comune che contribuisce al comportamento suicidario è la depressione. Le esperienze infantili traumatiche, tra cui soprattutto l’abuso fisico e sessuale, aumentano il rischio di tentato suicidio. L’isolamento, quasi tutte le malattie mentali e alcune malattie croniche pongono i soggetti a rischio di suicidio.[7]
Ilaria non ha malattie mentali eppure, secondo lo psichiatra che la segue, una volta fuori dall’unità spinale potrebbe essere a rischio suicidio. Ancora. Per lei «vivere è un Purgatorio senza uscita, neanche la morte è vera, non si può fuggire da nessuna parte. Ogni porta è sbarrata. Vivere è un obbligo cui non posso sottrarmi, devo solo scegliere se farlo da cadavere o da persona».
Si è tentati di pensare che un incidente possa restituire senso a una vita dilaniata, come quella di Ilaria che non voleva vivere ma neanche morire: sospesa nel mezzo di tutti i mondi, sospesa tra le dimensioni. Sospesa in quel pensiero dissociato che diventa realtà, verità. Ella considera il deragliamento una feritoia attraverso cui il reale si mostra. E invece l’incidente può rappresentare solo la luce che illumina il buio, il nascosto, l’incompreso.
Una scelta difficile da comprendere quella di Pisistrato nel già citato canto del Purgatorio. Dante lo scelse come esempio di mitezza d’animo, riprendendo un episodio raccontato da Valerio Massimo: un giovane, innamorato della figlia del tiranno, l’abbraccia e la bacia in pubblico suscitando l’ira della madre della ragazza che chiede vendetta per l’offesa subita. Ma Pisistrato risponde con atteggiamento pacato e contenuto, dimostrando grande temperanza e dominio di sé.
L’episodio rimanda a quanto narrato nel libro da Palomba anche se nel lettore rimane il dubbio se riferirlo al comportamento di Ilaria, la quale non riesce a contenere se stessa oppure a suo padre il quale sembra non vedere e non capire le reali e profonde ragioni alla base degli atteggiamenti di sua figlia. Oppure ancora nell’atteggiamento remissivo di sua madre, laddove diventa ella stessa una contemporanea Pisistrato e, nonostante gli incitamenti del marito, non riesce a dare addosso alla figlia perché in fin dei conti sembra proprio questo ciò che Ilaria vuole. Prendersi la colpa. Di tutto. Farsi del male. Sentirsi vicina al suo faro oscuro: «Sono una suicida, la diagnosi più consona è suicida, perché è sin dalla nascita che faccio l’amore con la morte». E che la ricerca. Nello scontro con i genitori come nelle storie d’amore: «Gli uomini che ho amato erano tutte le manifestazioni della morte».
Esattamente come il canto XV del Purgatorio dantesco, anche il libro di Ilaria Palomba è un’eccezione. Una narrazione di passaggio che racconta il percorso di un’esistenza deragliata la cui protagonista comunica con il e al lettore la sua esigenza meditativa e riflessiva senza uno scopo prefissato se non quello di capire e dare risposta ai tanti interrogativi che attanagliano la mente e il corpo di Ilaria. È questa la luce che ella rincorre per l’intero libro.
Il libro
Ilaria Palomba, Purgatorio, Alter Ego Edizioni, Viterbo, 2025
[1]M. Renzi, Dal tenue allo straziante: Purgatorio XV, L’Indiscreto, 11 marzo 2021.
[2]G. Pecchinenda, Il coinvolgimento tecnologico: il Sé incerto e i nuovi media, in Quaderni di Sociologia, 44/2007 – la società contemporanea / Giovani e nuovi media.
[3]M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati, Milano, 2004.
[4]G. Pecchinenda, op.cit.
[5]A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 2010.
[6]H.E. Richter, Il complesso di Dio, Ipermedium Libri, S.Maria C.V (CE), 2001.
[7]C. Moutier, Comportamento suicidario, in Manuale MSD.