Di particolare interesse è il fatto che, nel corso della narrazione, l’autore confessi via via – grazie ad accorgimenti para-testuali e grafici di grande originalità – di non riuscire a restare fuori dalla materia narrata, cosicché la distanza di sicurezza dal protagonista finirà col venir meno; tanto che si assisterà spesso, nella scrittura, a slittamenti dalla terza persona alla prima.
Il filo meta-narrativo s’intreccia dunque alla storia principale, facendo emergere gradualmente il problema dello statuto dei personaggi come altrettante proiezioni dell’autore, quasi fossero controfigure sorvegliate a vista dal suo occhio egemone. Ma non manca mai l’elemento ironico, che in qualche modo mitiga, anche al lettore, la sofferenza spesso causata dai ricordi del protagonista-autore.
L’inchiesta sul reale, da decifrare attraverso la scrittura, assolve una funzione terapeutica e liberatoria, propizia le fughe nell’ignoto, spinge i doppi (il Marcello/Marcel di Gramigna per l’appunto) a far perdere le proprie tracce nel reticolo della topografia di Parigi, città «infestata» da larve letterarie e ricorsi proustiani. L’asse Milano-Parigi è quindi il risultato del convergere di sensibilità e influenze (Manzoni in strana alleanza con Proust) e insieme l’esito di una sotterranea conflittualità, di un’alternativa tra costrizione e libertà, tra eredità paterna e insofferenza al «peso di Anchise», infine tra il cedimento alle prosaiche abitudini della borghesia meneghina e la ribelle consacrazione all’assoluto dell’arte.
Il lento ma tenace sedimentarsi in terra lombarda di una tradizione di lettura e rimeditazione della Recherche testimonia una declinazione originale del proustismo, estranea da un lato ai tic e alle riproposizioni convenzionali, dall’altro assai lontana dalla linea portante del proustismo di matrice fiorentina: questa tendenza sviluppatasi in Toscana, che del proustismo costituisce la versione più nobile e indagata, riequilibra e ridefinisce i termini dell’esempio dello scrittore francese focalizzandone gli esiti sulla letteratura di memoria e sul romanzo di formazione.
Con Marcel ritrovato Gramigna ribadisce la sua radicale repulsione per ogni tipo di impressionismo nella lettura dei testi e nel giudizio che ne viene ricavato, accompagnata dalla consapevolezza teorica elaborata soprattutto negli anni ottanta e la progressiva messa a punto di molteplici strumenti critici utilizzati con rigore, senza posizioni pregiudiziali né facili ecumenismi, ma creando spesso passaggi ed incroci imprevedibili grazie ad una memoria letteraria fuori dal comune, non trascurando l’elemento psicoanalitico.
L’esigenza del quotidiano che finisce per sposarsi con la naturale voracità del critico è evidente in Marcel ritrovato, unita ad un vitale e reale desiderio di comprensione del grande scrittore francese.
«È stupido fare la commedia con te Bruno: lo sai quello che è capitato con Marcello, cioè che non abbiamo più notizie da Parigi, e anche tutte le chiacchiere che si sono fatte, figurati! se te ne hanno risparmiata una. Lascia andare, non importa. Sono sicura che c’è una buona ragione della scomparsa di Marcello, non penso al peggio ma può darsi che abbia bisogno di qualcuno che gli sia amico, che l’aiuti. Me non vogliono lasciarmi andare, […], se qualcuno andasse a Parigi a vedere mi metterei tranquilla.»